VICO ACITILLO 124 - POETRY WAVE
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Sans passion il n'y a pas d'art

Calamus
Xenia


Inferno, Canto XVI
di Massimo Sannelli


I sodomiti non sono solo “litterati grandi e di gran fama”, ma anche gentiluomini della politica e della guerra. Meritano la cortesia, alla quale Dante è esortato. Qui Guido Guerra, Iacopo Rusticucci e Tegghiaio Aldobrandi esaudiscono il desiderio espresso in Inf., VI 79-80: in effetti sono tra le anime nere, ma la loro grandezza umana è fuori discussione [questa grandezza evoca questa cortesia: altezza chiede altezza].
Dante ha un rispetto particolare per questi dannati: perché la cortesia la guerra la politica – e la cultura di Brunetto – lo riguardano, in prima persona, come poeta soldato politico. [E anche il peccato di questi grandi lo riguarda? Le fonti sanno che fu il peccato dello stesso Virgilio. E Dante è coinvolto in queste glorie e in questi naufragi, che lo fanno svenire come la dannazione di Paolo e Francesca. Ma Virgilio – se dobbiamo guardarlo con empietà – è meno coinvolto nelle cose del mondo, e il suo fallimento onesto – bruciare l’Eneide – è nel fatto che il verginello è incontaminato, ma vuoto: “Che significato aveva l’Eneide di fronte ad una vera storia romana, come quella che aveva scritto Sallustio, o come l’altra, alla cui poderosa costruzione Livio ora aveva osato accingersi? che significato avevano le Georgiche di fronte alle autentiche informazioni scientifiche che il venerabile Terenzio Varrone, il più dotto fra i dotti, aveva fatto pervenire all’agricoltura romana?”. E anche Orazio, “quello sì, era stato soldato, ed aveva combattuto per Roma, si era sacrificato per Roma, donde la sorprendente autenticità che prorompeva sempre dai suoi versi”. Parole della prosa poetica di Broch sulla Morte di Virgilio; e le stesse parole sono sembrate a Gombrowicz un eccesso bulimico di perfezione [il suo esempio è duro: “là tutto è perfetto, profondo, grandioso, sublime”, come divorare un piatto di zucchero, per eccesso]. Ecco la sorprendente autenticità di un Dante troppo coinvolto, in tutto e con tutti, per essere neutrale o innocente – e per questo la sua opera non è innocua, perché i conti da regolare, nel bene e nel male, sono troppi]
Quello che importa è la maledizione di Fiorenza, provocata da una domanda dei dannati e pronunciata da Dante. Ora nella città mancano cortesia e valore – quasi una dittologia, un concetto espresso da due parole-chiave della cavalleria e dell’amore poetico – a causa della gente nova (i provinciali inurbati) e dei subiti guadagni. Oggi la cortesia è soppiantata dall’orgoglio, e il valore dalla dismisura. Rimane su tutto l’intuizione di José Bergamín: “In Dante tutto diventa questione personale”, anche “l’intero Universo”.
Qui appare il mostro Gerione, per la meraviglia di chi legge. Come il Minotauro e i Centauri, ma anche come la statua di Creta, Gerione è composito: viso di “uom giusto” e corpo di serpente, con una coda “a guisa di scorpion” che appesta il mondo. E Dante pronuncia uno strano giuramento, «per le note» della stessa Comedìa: cioè Dante giura su se stesso, infrangendo un ordine evangelico preciso. E ora: che senso ha un giuramento su un’invenzione? O il giuramento è inefficace o la finzione non è finzione: se come autore giuro su una favola (mia) o sulla finzione poetica (mia) – allora le possibilità sono due: o la favola ha una sua verità parallela alle verità scolastiche o il giuramento è un flatus vocis. In effetti il gioco c’è (c’è anche il gioco, non solo il gioco): il giuramento è sulle note, e Gerione viene notando (v. 131; e anche in Inf., XVII 115). Una nota è la scrittura in versi, su cui il poeta giura; una nota è anche il moto di un mostro, che vola. L’ambiguità è molto ravvicinata e molto voluta: ora il lettore – me compreso, e te compreso – è libero di credere o di lasciarsi ingannare. Dico il lettore, volutamente, perché Dante giura rivolgendosi a lui: è il primo e unico giuramento per il lettore, e chi parla è il Dante regista (mentre il Dante interprete giura nella finzione, da personaggio a personaggio: Purg., VIII 127). In Inf., XIII 74 c’è un altro giuro in prima persona: parla Pier della Vigna, da personaggio a personaggio. Non è una questione piccola: su questi giuramenti si basano la liceità della finzione e la dignità dei parlanti: se il giuramento non è uno scherzo, è necessario che le note siano vere, anche se sono fittizie, e anche quando turbano la ragione; se le note sono vere – in un senso abbastanza alternativo a quello usuale – la testimonianza di Pier della Vigna ha una sua potenza, come se Piero avesse veramente parlato a Dante.
Che tipo di finzione esiste, e quanto vale, quando il tempo sta per scadere? Soprattutto: a che cosa tende la finzione? Ad essere – nel caso particolarissimo di Dante – un’opera da «legislatore di religione», secondo l’intuizione di Foscolo: e questa volontà è distruttiva, rispetto alle piccole abitudini dei poeti fiorentini. Il punto è questo, nella solita forma violenta dell’aut aut: la Comedìa è O un quinto vangelo O una grande favola. E quindi, lettore? Il fatto è che la Comedìa è libera e definitiva: non obbedisce a nessuna regola perché è nuova e mobile, umana e sovrumana, e chi la scrive – l’eletto autoproclamato, «fiorentino per nascita, non per costumi» – non ha né patria né committenti: qualche volta il giuramento varrà, qualche volta no. Chi lo decide è Dante, non tu. E tu, il lettore, subisci questo fascino, un po’ autoritario e un po’ rassicurante.
 
dal commento alla Comedìa in corso di pubblicazione (Fara editore, Rimini 2010)


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