VICO ACITILLO 124 - POETRY WAVE
Electronic Center of Arts

Direttore: Emilio Piccolo


Sans passion il n'y a pas d'art

Calamus


Inchiesta sulla poesia

   

Nel 1996, nella speranza di poter redigere un volume su quanto ci si aspettava intorno
alla poesia al tramonto di un secolo, fu inviato ad un gruppo di amici scrittori un breve questionario.I dattiloscritti, per la cronica insufficienza dei fondi, non sono mai andati in tipografia, ed oggi,rileggendo alcune risposte fra le tante giunte in quel tempo, crediamosia interessante riproporne proprio qualche esempio.
L’occasione ci stimola ad un nuovo invito rivolto a quanti nell’anno 1996 non risposero,
così da poter aprire un dibattito aggiornato e stimolante.
 
Il questionario era:
1) Dalla seconda guerra mondiale alla Bosnia, alla Cecenia: come potremmo intervenire con il segno della poesia contro l’incapacità di ascoltare?

2) Carducci, Pascoli, D’Annunzio / Marconi, Freud, Einstein: in questi due gruppi sembrano presenti due maniere di incidere sulla cultura, ma chi lascia un segno indelebile?

3) “Diciotto anni, muore di parto: avviso al ginecologo” : come può accostarsi la poesia ad una tragedia?

4) Tra la cultura accademica e la cultura underground ed Internet: riusciresti ad inserire un tuo nuovo volume di poesie?

5) 1950/2000. Quasimodo, Ungaretti, Montale / Baudo, Zichichi, Scalfaro: ancora un confronto che non tocca gli addetti ai lavori, ma il grosso pubblico da ascolto soltanto a Baudo?

6) Quale valore può avere la poesia in un contesto sociale che è protagonista di “labbra e seni al silicone”, di “uteri i  affitto”, di “manipolazioni genetiche”, di “Alzheimer sempre più diffuso”?

7) E’ noto che moltissime case editrici, anche di etichetta, riescano a chiedere al poeta somme enormi per la pubblicazione di un volume. Lo reputi lecito? E se tali somme le versassimo a gruppi sociali meno abbienti? Alcuni di essi sono lontano un miglio dagli interessi poetici, perché afflitti dalla fame, ma nascondono anche dei valori e dei sentimenti inattesi.

8) Nel divario di potere editoriale Nord-Sud cade anche la distribuzione del volume pubblicato. Hai trovato qualche difficoltà nel passato ed ancor oggi per i tuoi volumi?

9) Un uomo della strada (diciamo licenza media) ha letto una tua ultima poesia. Non l’ ha compresa e te ne chiede una semplice interpretazione. Lo assecondi… reagendo in qual modo?
 

Pubblichiamo le risposte date allora da:

  1. Roberto Sanesi
  2. Lamberto Pignotti
  3. Luciano Luisi
  4. Luciano Caruso
  5. Gesualdo Bufalino
  6. Massimo Pamio
  7. Franco Manescalchi
  8. Franco Cavallo
  9. Carmine Di Biase
10. Angelo Lippo
11. Dante Maffia
12. Giuseppe Napolitano
13. Gio Ferri
14. Mariella Bettarini
15. Alberto Cappi
 

Roberto Sanesi

1- Collegando subito a questo primo interrogativo anche il 3 ed il 6 (vertono tutti nella loro variazione, su un principio di “realtà”, cronaca, ecc), mentre non credo che vi sia una inevitabile “incapacità di ascoltare” – è un problema indotto – sono convinto da sempre della impossibilità, perfino della inopportunità di una competizione sia pure nobile della poesia con i fatti immediati. Detto genericamente (ci vorrebbe ben altro che una risposta in sintesi), se la funzione, o una funzione, della poesia sta in una sua capacità di ri-fondazione continua, il dramma singolo, l’evento transitorio, il malessere sociale individuale, insomma tutto ciò che ormai con forza ci è raccontato da mezzi di comunicazione diffusi e potenti, non costituiscono il suo vero o comunque efficace punto d’ancoraggio. Ahimè non c’è nulla di nuovo nella tragedia del vivere, cambiano solo i particolari. Non credo, in poesia, né alla notizia né alla sua descrizione. Credo a una poesia fondata su principi comparativi, interattivi, pluri-teorici (se si può dire), generativi di modelli logico-esplicativi.
Dove c’è capacità di ascoltare, e io credo che ci sia, sia pure in minoranza, è questo che sarà ascoltato. La poesia è elitaria? Non è detto che sia una condanna. La sua area di azione è di conoscenza. Non di volta in volta e a seconda che.
2 - Il modo di incidere della prima terna rispetto alla seconda è decisamente inferiore proprio a causa della divisione mantenuta fra le due aree d’azione culturale. E’ il male della tradizione italiana più recente. Il divieto implicito fatto alla poesia di “contaminarsi” con scienza, politica, filosofia, economia, antropologia, ecc. ecc. (Discorso che meriterebbe un’indagine approfondita- né Dante né Leonardo, per esempio, avrebbero mai sottoscritto una simile scissione).
4 - Perché no? Con totale indifferenza per gli evidenti ostacoli. E di nuovo: evitando di considerarmi uno “specialista”. Ci sono già troppi poeti-poeti, che considerano  estranei alla propria attività l’impegno critico, la traduzione, il dibattito sulle arti figurative- qualsiasi cosa non sia “la poesia”, falsando appunto il concetto di poesia, estraniandola. Per non dire di lingua, di musica , etc…
5 - Sì, il grosso pubblico. Ma come arrivano le informazioni? E la scuola? La letteratura è fatta regolarmente apparire mussale, incartapecorita, oggetto di studi passivi. Il morbo di Alzheimer di cui parli in 6) è determinato dal prevalere dell’immediato consumabile sul meditativo-problematico, che richiede tempo e attenzione.
7 - Rispondere è difficilissimo. Di per se è inammissibile pagare per essere     pubblicati. Per altri versi, sapendo che gli editori di poesia non possono sopravvivere, un aiuto in qualche forma potrebbe non essere ritenuto scandaloso. Ma quanti falsi poeti, che non leggerebbero una poesia altrui nemmeno sotto minaccia di fucilazione (se ne leggessero, qualche libro di poesia in più si venderebbe), quanti ingenui arroganti (senza saperlo) che pensano alla poesia in termini di “afflato sentimentale”, di confessione, perfino di “status symbol”… ci vorrebbe il numero chiuso. Ma non saranno questi a devolvere a gruppi sociali meno abbienti ciò che spendono per l’ambizione di apparire poeti. Come sarebbe opportuno. Anche i falsi editori proliferano su questo. E  i falsi premi letterari.
8 - Non so rispondere. So che la distribuzione è un problema un po’ dovunque. Ma se l’editore è vero, i libri arrivano.Non ho mai notato difficoltà, per me, fuori della norma.
9 - Ammettendo che l’ipotesi sia verosimile, credo che prima gli chiederei di rileggere la poesia  quattro volte, poi gli spiegherei che il poeta non è in grado di dare spiegazioni (le sue intenzioni sono, appunto, solo intenzioni), infine tenterei di convincerlo a darsi la spiegazione che ritiene più opportuno. E’ lui il lettore. (forse aggiungerei che entrambi siamo in grado di riconoscere una mela, per esempio, ma non sapremo come spiegarla).

(13 aprile 1996)

2. Lamberto Pignotti

1) Quel genere particolare di comunicazione che è la poesia dovrebbe dare informazioni diverse da quelle fornite dagli usuali canali. In tal senso potrebbe operare uno scarto dalla norma – esteticamente, socialmente,ideologicamente…- tra “reale” Bosnia con il suo contesto e la “martoriata” Bosnia messa in iscena dai mass media. Sta alla poesia dire che l’immagine della realtà può non essere  la realtà dell’immagine. – Tra l’altro: quanti ne ha uccisi il cecchino, su commissione diretta o indiretta dell’operatore televisivo?
2) Poesia o scienza? Entrambi lasciano il segno e non sempre     univocamente, nella stessa direzione. Dei versi possono spingere all’azione materiale; una formula, una scoperta, un’invenzione sono suscettibili di procurare sensazioni ed emozioni estetiche.
3) Perché un tema del genere – tragico come tantissimi altri che i notiziari ci danno ogni giorno – non dovrebbe costituire tema di poesia? – Oppure la domanda sottintende che a una simile notizia il poeta dovrebbe ammutolirsi? –Oppure ancora: come mai una notizia di questo tipo dà l’impressione – anche al poeta – di averla già sentita e risentita? Occhio ai media!
4) Tra la fine del Quattro e l’inizio del Cinquecento il poeta avrebbe preferito essere veicolato attraverso la scrittura manuale, l’oralità o la stampa?
5) Nell’oceano delle comunicazioni di massa che tendono a generare rumore, il messaggio in bottiglia, presto o tardi arriva sempre. Ad ogni modo i “chiacchieratori” televisivi sono destinati alla cassa integrazione con la diffusione dei messaggi interattivi e multimediali.
6)  Questa e molte altre, in ogni epoca, sono le cose che possono colpire il poeta. In fondo Dante è riuscito a rendere interessante perfino l?inferno…
7) La questione è complessa e anche ingombrante. Si potrebbe pensare a una sorta di San Vincenzo Editrice e rivolta insieme a pubblicare autori meritevoli in edizione economica e sostenere con i diritti d’autore i gruppi sociali meno abbienti.
8) Chi non ha avuto qualche difficoltà per la pubblicazione e la distribuzione delle proprie opere? Anzi, la faccenda è così penosa, generalmente, da indurre qualcuno a tenersele nel cassetto: Kafka insegna.
9) Dipende da chi, da come, viene chiesta. Intanto va reputata legittima l’interpretazione di ogni lettore, a prescindere dalle sue licenze , e non solo dell’autore. Il lettore però, con la sua richiesta, deve manifestare una sua forma di collaborazione, anche parziale, altrimenti si rischia il classico dialogo fra sordi. Ma chi ha buoni orecchi, intende: è lui che va assecondato, è a lui che si possono dare in ogni momento le istruzioni per l’uso degli ultimi modelli di poesia.

aprile 1996

3. Luciano Luisi

1- Temo che le mie risposte sembreranno, e forse lo sono, chiuse alla speranza che la poesia possa vere qualsiasi tipo di incidenza sulla vita, che scorre al di fuori della poesia ignorandola sempre più anche nella sua unica “finalità” (ma mi contraddico: perché sua sola finalità è la poesia stessa) che dovrebbe essere dualità, e leggere il mondo e in definitiva la vita. Ma mi sembra una dorata utopia, Credo, e la realtà me ne ha dato purtroppo conferma, che neppure la politica e la diplomazia che ne esprime le migliori intenzioni sia in grado di placare la bestia che è nell’uomo e che fa scoppiare delle guerre così sanguinose e stupide che hanno la sola spiegazione degli egoismi più feroci, delle ambizioni di potere che schiacciano ogni barlume di umanità.
2- Sono certamente due “gruppi” (come li definisce la domanda) che incidono entrambi sulla cultura, ma il primo appartiene al mondo elitario (sempre più elitario) della poesia, il secondo invece ha operato modificazioni  profonde sulla vita di tutti, anche se la maggior parte degli uomini forse ne ignora persino i nomi.
3- Accostarsi  al “male di vivere” è un dato costante della poesia e la sua testimonianza ha, o dovrebbe avere, un alto valore etico grazie al quale qualche volta può entrare in sintonia con un lettore. Questa misteriosa sintonia (sopra tutto quando a veicolarla sono i valori estetici del testo) è il solo vero premio per il lavoro snervante e inesauribile di rincorrere una forma che appare agli occhi del poeta come un irraggiungibile orizzonte.
4- Perché un “mio” volume? Il problema è quello di inserirvi comunque la poesia, e sarà sempre più difficile.
5- Il “grosso pubblico” ahimè, si.
6- Nessuno. Ma altissimo per chi sa ascoltarla . Ricordo che durante la cerimonia di un premio Alfonso Gatto, con la sua voce tonante  gridò: “La poesia è supremamente inutile!” – Ne aveva affermato così la sua insostituibile utilità.
7- Non è lecito. Ma perché i poeti sono disposti a pagare?
8- Non credo dipenda solo dal divario Nord – Sud : questo, se mai, riguarda la possibilità di accedere a certi editori. La distribuzione è sempre carente perché le tirature pur sempre limitate ne impediscono una capillare. Si aggiunga a questo che i librai che ricevono libri di poesia raramente concedono spazi sui banconi. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda dirò che sin dalla prima mia raccolta (Racconto e altri versi- Guanda 1949) non ho avuto difficoltà perché ho sempre trovato porte, anche blasonate, che mi si   aprivano: non ho invece mai bussato a portoni che probabilmente, e anche per motivi che conosciamo, sarebbero rimasti chiusi.
9- Mi è capitato, ma molto raramente e forse perché può essere giusto il giudizio che  Marabini dette, a nome della giuria del premio Pandolfo, e cioè che la “mia è una voce tra le più limpide della nostra poesia”. Ma quando qualcuno  non capisce (e forse ha ragione perché la poesia è comunque sempre oscura) gli rileggo i versi cercando di far sentire sopra tutto la musica, che è ciò che più mi interessa, e ho sempre potuto constatare che per quella via si può giungere alla pienezza del godimento del testo.

4. Luciano Caruso

1- Il segno della poesia non può intervenire contro l’incapacità di ascoltare. E’una risposta della sensibilità offesa, che può o meno trovare echi e consonanze negli altri.
2-   E’ ovvio che si tratta del secondo gruppo.
3-   Cantandola, rendendola esemplare e assumendo il dolore che c’è. Ma a che serve?
4-   Io ho praticato solo realtà marginali e trasversali, così non capisco il quesito. Se poi i nuovi strumenti richiedono nuove risposte, anche tecniche, si starà a vedere.
5-   Il grosso pubblico, non so, se ascolta solo Baudo. Quello che è certo è che non ha mai ascoltato Montale, Ungaretti, e Quasimodo o Eliot o Omero o chi altri si vuole insieme nell’elenco.
6-   Lo stesso valore che aveva prima, il che vuol dire molto poco, pressoché nullo.
7-   Si tratta di un non-problema, o almeno formulato in questi termini. Pubblicarsi un libro di poesia a proprie spese ha un valore narcisistico o voluttuario. Potremmo, allo stesso titolo, dedicare ai non abbienti le somme che si spendono per il sarto o l’auto nuova.
8-   Avendo praticato solo circuiti marginali e minimi non ho mai incontrato difficoltà per i miei “volumi”. E in ogni caso la distribuzione dei volumi di poesia non esiste né al Nord né al Sud. Semplicemente non c’è mercato né curiosità al di fuori del ristretto cerchio degli addetti ai lavori, che si raggiungono solo con gli “omaggi”.
9-   No. Non assecondo mai le richieste di interpretazione. Non per stupido orgoglio intellettuale, ma perché sono convinto che, una volta pubblicata, una poesia ammette varie interpretazioni e la mia vale quella degli altri.
Firenze, 04-03-1996

5. Gesualdo Bufalino

Carissimo Antonio Spagnuolo apprezzo vivamente la tua iniziativa, che mi sembra lodevole e da seguire nel tempo. Io resto sempre sconcertato di fronte ai questionari, ma questa volta avrei risposto, ma purtroppo non mi sento di partecipare per la gravosa età e le insidie della salute che mi costringono a limitare i miei impegni di scrittura al minimo indispensabile.
Un abbraccio e mille sinceri auguri

6. Massimo Pamio

1- Possiamo intervenire clonando l’esperienza nostra del sentire, che privilegia l’ascolto delle voci di coloro che voce non hanno, delle melodie del silenzio, dei suoni di un mondo che va scomparendo.
2- Da bambino, interessato al moto universale e alle particelle atomiche, avrei voluto studiare per diventare fisico nucleare. Ora, da adulto, quando mi soffermo davanti a una siepe mi sovviene l’infinito, non mi piace più riflettere sulle leggi e sui congegni del creato, ma solo profondamente inspirare.
3- E’ sempre più distratto il nostro mondo, che dimentica le pinze nelle pance dei pazienti, ed oblia albe e tramonti nei versi dei poeti e, alla fine, tutto e tutti dimentica ( è questa la tragedia arpia, l’onta personale:la morte, avvenga come avvenga).
4- L’accademico, il metropolitano underground, il cibernetico virtuale appartengono a quei tipi di uomo che non vogliono ammettere la sottigliezza dello iato che separa la propria famiglia da quella delle scimmie. Riuscire a inserire tra questi anelli che non tengono un volume di poesia è fin troppo facile, e inutile, astuto e sventato: un atto di coraggio di cui nessuno si accorge.
 5/6- Come è possibile intervenire con la poesia sulla cancrena sociale? Ce lo dicano (in televisione, magari, bandendo ogni pudore) Quasimodo, Montale, Baudo e Zichichi. Ci ammonisca Scalfaro, e ci perdoni il Papa per la cancrena, per il sociale e anche per quel che diciamo.
7- Gli editori non sono ricchi, ma ambirebbero ai capitali, perciò chiedono, in armonia col sistema oggi vigente in Italia, trenta denari tangenti in cambio d’una suppost(um)a fama editoriale. Allora, perché non versare quelle monete ai poveri, obbligandoli, in cambio, a leggere le nostre opere inedite?
8- Non trovo difficoltà, perché non mi frega niente pubblicare. Preferisco i miei tiretti alle edizioni Mondadori.
9- Se si tratta della passante boudelariana…se è carina, la invito a casa mia, per una spiegazione Inoltre ho una bella collezione di farfalle.

aprile  1996

7- Franco Manescalchi

1- Negli ultimi quaranta anni abbiamo vissuto, storicamente, in una situazione planetaria con conflittualità periferica diffusa di due blocchi di potere “malati” di mundialismo. Ora, il mundialismo del potere è esattamente l’opposto della universalità del linguaggio poetico e del suo messaggio intrinsecamente liberatorio.  L’incapacità di ascoltare è perciò derivata da questa contrapposizione surrettizia fra poesia e società.  Dal Politecnico alle neoavanguardie per giungere agli anni 70, ovvero al Pubblico della poesia, ance in Italia abbiamo assistito al conflitto fra cultura del potere ed il potere sempre rimosso delle scritture creative.  Il segno poetico spesso ha solo agito, talvolta ha anche reagito, pur rimanendo underground. Ed oggi la questione si fa ancora più acuta, dal momento che il potere economico politico “fa orecchie da mercante”. Comunque, continuando ad “ascoltarci” aumenteremo le generali capacità di ascolto, nonostante tutto.
2- Poesia e scienza rappresentano, a mio avviso, un binomio inscindibile.  Dubbio e ragione stanno alla base di una ricerca alla fine comune.  E’ molto difficile distinguere fra “l’atomo opaco del male” di Pascoli ed il senso del mistero di Einstein, se non per l’implicazione etica del primo e l’oggettività linguistica del secondo, che pure lascia spazio alla poesia. Infine i segni dell’uomo sono indelebilmente  precari…
3- La poesia è sempre tragica, sino al momento in cui Marsia subì “il divieto della Dea”, e dunque nasce per contrasto; ma lo è doppiamente nello stato di emarginazione di cui si è scritto sopra.  E tutto ciò, l’atteggiamento “impoetico” di chi gestisce ogni forma di potere, primo fra tutti chi può decidere della vita degli altri, è “avvisato”, senza appello, dal suo stesso atto, per il suo stesso atto, oltre ogni civile (o incivile) “garanzia”. Ancora una volta “l’incapacità di ascoltare”, che in fase prelinguistica è in tutti un’opinione, non può non essere assolta per insufficienza di prove: è la più atroce e la più tragica.  Le scritture creative non emergono dalla trattazione di temi ma dal trovarsi in re, nei problemi
4- I libri di poesia sono letti da pochi e scritti da molti: l’underground ne pullula, la cultura accademica non “li vede”, internet ne accentua la separatezza. Negli anni 70 si era tentata la diffusione orale, dei recitals…che fare? (Non è una citazione). Il Giusti scrisse : “il  fare un libro è meno che niente,/ se il libro fatto non rifà la gente”. Il fare dunque? Il  poièin? E la gente? Ma non è più quel tempo, siamo Giusti. Anzi, non lo siamo. Potremmo provare ad “inserire” il libro sul comodino fra il montaliano “cane di legno” e la confezione del Tavor. Chi sa che non funzioni…rimane oscuro il rapporto fra il libro (nostro) ed il comodino (di chi?).
5- Procediamo per stilemi cari al “grosso pubblico”: Quasimodo: “Alle fronde dei salici”, Ungaretti: “M’illumino d’immenso”, Montale: “Meriggiare pallido e assorto”. Sono versi memorabili di cui, talvolta, si appropria  anche la pubblicità: “M’illumino di Vienna”, per fare una citazione. Una volta spesso si viaggiava a piedi e si scandivano, così, “i piedi”  dei versi. Da Nietsche a Sbarbaro, da Papini a Campana, da Rebora a…, il pensiero poetante rappresentava una forma di/del movimento. A livello popolare il “poeta” era il cantastorie che andava da un posto a l’altro, senza una meta fissa. Poi, il “grosso pubblico”, alla fine degli anni 50, ha perso l’uso dei piedi, ha preso ad andare in B/audo. Prima in B/audo minuscole. Ricordiamo la carica delle 500. al mare, ai monti. Dannunziani apprendisti stregoni andavano al mare, edonisticamente, a “cavallo”. E poi B/audo anche Zizhichi (chi?), Scalfaro (un faro!). E gli addetti ai lavori?
6- Il valore della poesia sta nel segno, il valore del segno sta nella poesia, il segno è un valore poetico che in un clima confuso di “creatività diffusa” è più necessario, perché non solo estetico, come sono invece le “labbra al silicone”. La questione sta a monte. Che dire della crisi di identità, una sorta di “Alzheimer” da virus berlusconiano. Anagramma: Silvio Berlusconi = il viso in burlesco. Ma è anch’essa, involontariamente, una maschera tragica, una malattia precoce o senile. Il segno è tutto. Di- segni, di – sogni. Ricominciamo dai “graffami”. Siamo creativi.
7- Ritorna l’idea del libro,  di librificazione, di oggetto edito da stampatori privi di status editoriale, di editori che aprono anche collane a “scopo di lucro”. La questione fu affrontata anche dal SNS e dalla SIAE ed in effetti va considerata in modo oggettivo. Per la stragrande maggioranza dei casi la soluzione di devolvere i contributi economici in beneficenza non sarebbe sbagliata. Soccorre ancora il Giusti: “Un tal Neri ha stampati/ i suoi Pensier  staccati:/ consiglierei piuttosto il signor Neri/ a volersi staccar da’ i suoi pensieri”. Ma nessuno garantisce che il denaro risparmiato da tale investimento poetico non finisca poi per mettere benzina nel motore di B/audo o anche peggio (meglio un poeta mancato che un… B/audista della macchina berlusconiana. Gli estremi si toccano). Per altri pochi può essere un primo passo verso la poesia. Va infine detto che “i gruppi sociali meno abbienti” hanno fame di tutto, non ultimo di poesia. Può essere che ci si debba ritrovare tutti insieme, con uso di parola, in una pacifica “veglia d’armi”.
8- Certamente un piccolo editore del nord, per la sua stessa collocazione, ha qualche possibilità in più nella distribuzione di un libro. La situazione non cambia molto, ma nei limiti delle basse tirature che solitamente si effettuano, ciò può risultare sostanziale.
9- Tengo da oltre quindici anni corsi di scrittura creativa per l’Università del tempo libero anche a “uomini della strada” che non comprendono l’intero assetto di un testo poetico. Abbiamo in comune, io e loro, il desiderio incluso nell’anagramma “apro la –parola”. Ci accomuna, inoltre,la necessità di vivere nella polis senza essere sbranati dalla sfinge, di sciogliere gli enigmi che sono dentro l’uomo, contro l’uomo. La poesia non è un codice socialmente vincente, eppure…
(aprile 1996)

8. Franco Cavallo

1- Le possibilità di intervento della poesia sul reale sono sempre state scarse, mentre l’incapacità di ascoltare rimane ancora tanta: alla fine alla poesia non resta che piangere sulla propria impotenza. La poesia – l’arte in generale – non evita le guerre (non solo non ha evitato la seconda guerra mondiale e quella della Bosnia, ma non ha evitato neppure quella di Troia). Il segno della poesia può al massimo,  “rappresentare”, è il suo compito quasi naturale- il dolore o la morte, la sofferenza o il sopruso, la violenza nei confronti dei più deboli e la miseria degli oppressi- , o antivedere. Il segno della poesia è  circolare: ritorna sempre su se stesso, come su loro stesse ritornano sempre la vita e la storia, anche quando vi sono cambiamenti epocali in atto. Conferire alla poesia un potere che non ha mai avuto e che non potrà mai avere è il modo peggiore di servire la poesia: non solo, ma è anche il modo peggiore di rapportarsi alla tragedia, o alle varie tragedie, che sconvolgono il mondo.
2-   I “segni indelebili” li lasciano soltanto i grandi spiriti: artisti o scienziati, non fa alcuna differenza . e anche in questo caso le loro opere sono segnate dal tempo storico, e quindi anch’esse sono destinate a subire l’usura delle stagioni. Dopo Pascoli viene Montale, dopo Einstein…
3- esiste un solo modo di accostarsi alla tragedia: rappresentandola, se se ne è capaci (c’è chi sostiene che la tragedia è nata e morta nell’età classica, e che l’uomo attuale non sappia più rappresentarla). La pietà o la solidarietà sono sentimenti encomiabili, ma da soli non producono poesia.
4- Neanche a parlarne. Ci ho provato più volte (ci ho provato più volte?), ma è stato sempre un fisco.
5- Mi sembra che la domanda contenga già in se la risposta. Finché la situazione rimarrà  quella attuale, il rapporto tra Ungaretti e Baudo (per Scalfaro va già un po’ meglio: le sue lunghissime sciarpe compaiono piuttosto di frequente in televisione; anche per Zichichi non va male, visto che, nonostante l’avviso di garanzia, continua a tenere rubriche di divulgazione scientifica, sempre in televisione…) rimarrà da dieci a dieci milioni.
6- Lo stesso valore che hanno il circo equestre o il tiro con l’arco. Ma grazie a Dio, ci sono ancora (forse ci saranno sempre) persone che seguono quel tipo di spettacolo o che non sono appassionate a quel particolare sport. Tutto sta a trovare uno sponsor che li aiuti a diventare più popolari.
7- Non so se sia lecito chiedere a un poeta somme enormi per pubblicare i suoi versi. Forse lo è, dal momento che vi sono poeti disposti a sborsarle. L’importante , in questo caso, e che vengano assolti tutti gli obblighi fiscali (con il fisco, oggi, non si scherza!).
8- Che esiste un divario tra Nord e Sud anche nell’ambito editoriale ( e non soltanto in quello) per quanto riguarda la diffusione della poesia, è un fatto ineluttabile. Ma si tratta, in ogni caso, di un fenomeno irrilevante, dal momento che anche i poeti più fortunati che pubblicano i loro libri con i cosiddetti grandi editori, nella società attuale son poco più che i fantasmi. C’è chi riesce a fare il fantasma gratuitamente e chi, invece, è costretto a finanziarsi da solo questo hobby. Quanto alle “difficoltà  personali”, le ho risolte pubblicando, quando posso, i libri a mie spese (a essere un fantasma in proprio, cioè). Quando nel 1969Guanda inaugurò con il mio “Fétiche” la “piccola Fenice degli italiani”, ricevetti un anticipo di centomila lire. Erano altri tempi. Oggi i miei libri di poesia non hanno quasi mai un prezzo  sulla quarta di copertina.
9- Non mi risulta che “un uomo della strada” (magari!) abbia mai letto un mio verso  o che abbia dimostrato il benché minimo interesse per una mia poesia (penso che la stessa cosa potrebbero dire tutti i poeti interpellati: il distacco tra poesia e lettore si va facendo sempre più incolmabile). Se un giorno ciò dovesse avvenire (ma ritengo l’evento poco probabile),  cercherei di essere molto paziente e gentile con lui. Nessun atteggiamento “en artiste” , ci mancherebbe altro. In fin dei conti, nessuno lo obbligherebbe a starmi a sentire.
(maggio 1996)

9. Carmine Di Biase

1- Credo con maggiore appello all’interiorità: quelle “parole del silenzio”, nelle quali è il segreto di ogni vera poesia. Le parole di Manzoni, verso la fine della sua vita, a Rosmini : “Tacere, adorare, godere”. Troppa confusione, oggi, nei linguaggi, con il rischio dello svuotamento della parola. Perché la Parola non riesce più- tranne rari casi: penso a Mario Luzi e Luigi Cantucci – ad esprimere l’interiore delle cose. Parola, come umanazione del Verbo. Che richiede capacità di ascolto ossia silenzio interiore, nell’infinito abuso delle parole o dei mezzi di comunicazione oggi. Spesso senza anima, senza pensiero. A volte anche all’interno della parola religiosa. Forse la Chiesa stessa, la Poesia, l’umanità è chiamata, oggi, al manzoniano “silenzio amico”. Credo che su questa strada la Poesia possa ritrovare il senso di una nuova “comunione” e, quindi, di ascolto: non solo nel terrore della violenza a tutti i livelli, ma nei rapporti del quotidiano.
2- Credo che entrambi le dimensioni, quella della poesia e quella della scienza, abbiano lasciato un solco indelebile nelle coscienze: penso alla poesia di Pascoli, o alle scoperte di Einstein, o alla scienza dell’inconscio di Freud. La poesia può trovare nelle nuove forme del linguaggio scientifico nuova espressione: la sua “durata” – il segno “indelebile” – dipende dalla sua autenticità. Le rivoluzioni scientifiche – comprese quelle dell’inconscio – possono essere una risposta a quelle nuove forme della poesia, che si ritrovano, appunto, in poeti come D’Annunzio o Montale (quest’ultimo, nel centenario della nascita: 1896-1996). Nella scoperta di un nuovo modo di far poesia.
3- Poesia e tragedia, spesso vanno insieme: poesia non è astrazione o disincanto, ma partecipazione al dolore  dell’essere: penso a Leopardi, a Borges.
4- Da giovane ho scritto, in segreto, delle poesie: ormai perdute. Ora non è più tempo. Non so scrivere in poesia.
5- Può darsi: e tuttavia – proprio incidendo con le manzoniane “parole del silenzio”, quelle vere, riflesso delle parole interiori, ossia della Parola- si può incidere anche sul cosiddette “grosso pubblico”. Che poi non è così “grossolano” come si pensa. Non è questione di “audience” o “share”: ma di autenticità. La parola, quando è autentica, quando è vera poesia, incide. Si diffonde anche nella solitudine o nella infinita confusione dei linguaggi, oggi: visivi e non.
6- Ha valore, se è poesia vera: sempre, anche- o forse soprattutto- nel male e nel dolore dell’individuo e della storia. Compresa quella delle manipolazioni della scienza contemporanea, a volte contro l’uomo.
7- Credo che la poesia debba continuare per la sua strada: un cammino solitario ma che ha una sua meta e funzione nel sociale. E può giovare all’umanità
8- Mi interesso di saggistica e critica letteraria: i miei primi volumi li ho stampati tutti a mie spese: ora tra adozioni e recensioni, in qualche modo ce la faccio. In seguito vedrò.
9- Non sono poeta: comunque se un uomo della strada mi chiedesse spiegazioni sul mio lavoro letterario, cercherei di darle, assecondando la richiesta. Ma interrogandomi: il segreto di uno scritto- poetico e non- per me è nella chiarezza e semplicità, che richiede profondità (Deus simplex). E’ la mia aspirazione di sempre.
(maggio 1996)

10. Angelo Lippo

La poesia non si domanda, malvolentieri si interroga, preferisce piuttosto svolgersi, dipanarsi nel cielo delle illuminazioni e delle riflessioni.
L’istanza si appanna nel fiato del quotidiano, per cui l’insistenza con la quale ci si trova nella querelle finisce per appiattire la lungimiranza, l’estasi del dire e del fare poiesis.
C’è una incapacità recondita e significante che balza netta delle caverne dell’intuizione, dalla terra arata della creatività, con dislivelli che si distendono come fianchi di femmine.
La ricerca è intasata dalla pressione, dall’urgenza di manifestare ad ogni modo, anche quando non risarebbe motivo alcuno per farlo, anzi occorrerebbe esattamente il contrario.
Il silenzio.
C’è sempre chi si attarda dietro la siepe del tempo e scarica la sua mitragliatrice di idee, di pensieri, di emozioni, di sensazioni, ignorando aprioristicamente il fervore situato nelle pieghe del vento.
Forse.
Una tantum necessita lasciarsi andare, far vibrare le corde, non appisolarsi ai rami dei cedri, aspettando che la salsedine del solleone roda i tarli della memoria e gli aquiloni del futuro.
Forse.
Al di la e al di sopra di tutto, degli spazi siderali, delle voluttà inconsce che si annidano all’interno di ognuno, resiste la smania di lucidare a nuovo i tappeti dell’esistenza, da offrirsi nudi al palpito della intelligenza.
E così l’ormai dimenticato “matto del paese” si trascina nelle interrogazioni, spesso infruibili e prive di uno sbocco verso gli oceani della vita.
E nasce il trivio fra cultura accademica, underground e internet: la pagina non sa dove collocarsi, perché e come. La virulenza delle immagini non si pone ultimatum, tutt’altro; i mass media sfornano a getto continuo, assillante, proposte (in)decenti, dove i vip fanno a gara per non riconoscersi, per oltraggiare le proprie coscienze.
Cosa può poiesis in un mondo che si “altera” che si “gonfia” e si “sgonfia”, che si “compiace di manipolazioni”, insomma è proprio necessario che questa creatura si misuri lungo le altezze di superbe cime?
Gli abissi allora si spalancano a dismisura, e la piccola pianticella rammemora la brina del mattino, la luce ferita del sole di mezzogiorno, la assopita carezza di uno spicchio di luna che alimenta dietro i vetri i sogni secolari.
E’ questo il suo “valore”, oppure l’altro, quello di aprire le porte alle “funzioni”, alle “casseforti” della Storia, ai “contesti” in cui si è mossa, prima, ora, e come si muoverà domani.
La pazienza diviene sempre meno attenta, e allora c’è il rischio – non improbabile e neppure immotivato – che divenga (in)pazienza.
Davanti, sempre, quell’ “in”.
Insomma “luogo dell’essere”, “buco della ragione”, e così a snocciolare le definizioni, le interpretazioni, assiomi, dogmi.
Nessuno se la sente di definire, di concludere il “patto di sangue”, ognuno preferisce e opta per l’ “assenza”, quindi una IN-presenza, sofferta e coltivata nei reticoli del tempo e della società.
Una società che si dice civile, che ignora però il traffico clandestino degli affamati che non possono mangiare, eppure lo desiderano, lo reclamano a viva voce. Così la parola passa inessenziale, presenza non gradita nelle albe dei giorni, imperscrutabile e perciò stesso più vivibile del momento che ci troviamo di fronte a qualcosa di sconosciuto.
La sua stessa (in)coscienza è la strada migliore per capire, per afferrare a tutto tondo il fiato lungo che si snoda sui prati dell’esistenza. E l’inatteso si somma, si moltiplica e “distribuisce” la sua ricchezza ovunque.
Il territorio è Altrove. I “passi perduti” si riconciliano. Non importa se a muoversi è il professore o il contadino, la media borghesia, la verità è dentro la ragione di quell’Altrove.
La recita si sviluppa dentro e oltre,  ma è proprio allora che Narciso spezza la sua immagine nelle acque melmose, frantumandola, tentando di specchiarsi Altrove. Il bisogno lo spinge a rifiutarsi, ad annullare la timbratura dei secoli, passando dall’Ufficio dell’inutile a quello dell’Essere, un calco a ceralacca dove il sigillo è la parola frenetica, lo stormire dei pensieri nell’improbabilità del Giorno.
Concludiamo? No, neppure per niente. E “buon sia” per i posteri.
Taranto 17 marzo 1996.

11. Dante Maffia

1- Se non ricordo male, in uno dei suoi libri memorabili, Elias Canetti scrisse che se la poesia servisse a qualcosa dovrebbe essere in grado di fermare la guerra. Eravamo  in prossimità del secondo conflitto mondiale. Ho pensato molto e spesso alla frase di Canetti e mi sono alla fine convinto che il senso della poesia è proprio quello di non farsi ascoltare. Non c’è perciò da intervenire in alcun modo, non sono gli altri incapaci di farsi ascoltare ma è la natura della poesia che è contro qualsiasi forma di comunicazione, tout court. E poi la poesia si fa, non si legge!
2- La poesia a fronte della scienza. È un antico ritornello irrisolvibile. Certo, quando si parla di chi ha fatto grande un paese si citano Goethe, Shakespeare, Dante e quasi mai gli scienziati; questo accade perché Keplero, Newton, Marconi, Freud e Einstein sono appena un anello della infinita catena dell’evolversi della materia, seppure attraverso l’intelletto e lo spirito, e invece gli artisti sono un sospiro (della materia e dell’antimateria) senza tempo e senza spazio. Naturalmente si può dire ciò e il contrario di ciò o cose simili. Forse il segno indelebile non lo lascia nessuno: “a pensar come tutto al mondo passa/ e quasi orma non lascia”.
3- La poesia può accostarsi a una tragedia, quale che sia, riuscendo a cogliere nella tragedia quel che v’è di perenne nell’errore, nella malvagità e nel dolore e a renderlo motivo di canto. Ma poi chi usufruirà di questo canto, di questo avviso? Nessuno, come ho detto nella prima risposta.
4- Un volume di poesie può inserirsi ovunque e bisogna fare l’inserimento ogni volta che capita l’occasione. Può darsi che un ingranaggio impazzisca…io credo molto nell’errore, nella causalità.
5- Perché un poeta dovrebbe porsi domande simili? Fra qualche tempo nessuno saprà più distinguere tra un cantante e un calciatore, tra un poeta e un presentatore televisivo. Lo dico senza tristezza, ne prendo atto. Del resto mai nessuno ha saputo, anche nei tempi passati, perché bisognava leggere un poeta. Non è cambiato nulla, l’uomo è ancora, aveva ragione Quasimodo, quello della fionda e della pietra.
6- Forse un valore consolatorio. È evidente che mi riferisco a chi scrive poesie e non a chi le legge. E poi, c’è veramente qualcuno che le legge? I filologi, ma quelli sono mendicanti di accenti, di fonemi, di apostrofi.
7- È un rapporto talmente privato quello delle case editrici che chiedono somme di denaro agli autori che parlarne significherebbe emettere un giudizio morale laddove interviene soltanto e semplicemente la libertà individuale. Personalmente, lo sanno tutti, io penso che ognuno si gestisce come più gli aggrada, a patto poi di non pretendere, come un mio amico analfabeta, di essere insignito del Nobel.
8- I più caustici epigrammisti del nostro secolo hanno sempre affermato che non v’è opera più inedita del libro di poesie edito. Tuttavia io non ho mai incontrato difficoltà per i miei volumi; so però d’essere stato fortunato.
9- Se un uomo della strada legge una mia poesia e poi mi domanda una spiegazione qualsiasi io gli rispondo che sta perdendo il suo tempo e gli consiglio di pensare ad altro: la poesia, se qualche volta si rivolge a qualcuno lo fa verso le anime che non pretendono e non hanno bisogno di spiegazioni. E poi, perché un uomo della strada dovrebbe leggere una poesia, mia o di altri? Per ordine del medico curante?
aprile  1996

12. Giuseppe Napolitano

È provocatorio il tono generale di queste tue domande (?): bisogna dunque rispondere in modo altrettanto provocatorio, anche perché non si riduca questa tua lodevole inchiesta al solito scambio di bolle pontificali da "poeti laureati"…
Pontificano sull'inesistente i poeti laureati.
Risponderanno davvero tutti gli invitati a questa indagine? e leggeranno poi le risposte degli altri? io sì - per correttezza e curiosità - ma ho paura che Qualcuno (la maiuscola se la mette da solo) non si degni di conoscere il parere dei minus habentes. Se quindi plaudo all'iniziativa, ho pure la sensazione che pochi applaudiranno me - né avranno a dolersene.
Che senso ha chiedersi (ancora, o proprio ora) chi provochi maggior risonanza fra Carducci e Marconi? Quale sia il ruolo della poesia, della parola, nell'epoca dell'immagine; quale potere abbia la carta stampata a pagamento contro coloro che sono pagati per convincerci a non leggere (tanto bastano loro, con le loro telefandonie, per mandarci a dormire più rilassati)? D'altronde, non volendo scomodare le più trite riflessioni sulla missione dell'artista, sull'esigenza interiore di comunicare comunque, di darsi per amore del prossimo anche al prossimo che non comprende, in attesa di una conversione di massa che non ci sarà... proviamo in qualche maniera a dire (non soltanto a dirci!) parole che sappiano di parola, che siano lievito, che facciano crescere.

1 - Carducci, Pascoli, d'Annunzio / Freud, Marconi, Einstein: in questi due gruppi sembra si possano scorgere due maniere di incidere nella cultura, ma chi lascia un segno indelebile?
Se c'è una sola Cultura, tutti lasciano il proprio segno, tutti quelli che lavorano per la Cultura. Se le culture sono diverse (ma almeno contribuiscono in vario modo a costituire la Cultura) il discorso rimane ancora valido. Se infine la cultura è il bene privato che il singolo custodisce e coltiva, allora forse - ma forse è un po' di parte - la poesia lascia un segno dentro che non alterano o cancellano le scoperte scientifiche. È più immediato comprendere il bene fatto da Marconi all'umanità con le sue scoperte, ma è più umano scoprire l'intimità che ci accomuna alla sofferta denuncia del male trasmessa dal fanciullino pascoliano. La relatività di Einstein mi fa capire che il tempo non passa, ma è d'Annunzio a farmi uscire - virtualmente, si direbbe oggi - dal tempo, con la sua "favola bella"... e lo preferisco (ma era una risposta così personale che volevi?).

2 - Tra la cultura accademica e la cultura underground ed internet: riusciresti ad inserire un tuo volume di poesie?
Aspettarsi l'interessamento della cultura accademica per un autore eclettico e periferico qual io sono (e ostinato a rimanerlo proprio per non essere etichettato come accademico), è per lo meno futile. So di stimati critici che hanno i miei lavori sui loro scaffali - e sanno di averli - ma non trovano il tempo di leggerli (salvo lodevoli eccezioni). Probabilmente l'informatica è il nuovo underground: fuori dalle cantine della pseudo avanguardia, che ha finito per lamentarsi con se stessa, si può entrare in ogni casa, si possono creare circuiti privati di comunicazione e farsi conoscere, per di più in tempo reale e senza intermediari, da un potenziale 'grosso pubblico'. E' da pensarci davvero!

3 - Dalla seconda guerra mondiale alla Bosnia e Cecenia: come potremmo interferire con il segno della poesia contro l'incapacità di ascoltare?
Non è tempo di lamentazioni, ma è sicuro che tocchi sempre all'arte sollevare il velo, scrostare il muro dell'indifferenza? Ascolta chi ha orecchie per intendere, e intendere non può chi non prova... Educare, piuttosto, bisogna, fin da piccoli, alla parola (a leggerla e ad ascoltarla), in famiglia, a scuola: questo sarebbe un rimetodo, anche per rompere il perfido dominio dell'industria massmediatica alla quale importa vendere prodotti scadenti purché, appunto, di massa. Bisogna insistere. Se riusciremo a convincere i piccoli lettori che si cresce in autonomia solo leggendo e rendendosi conto dei mille modi in cui è stata detta e ancora si può dire l'espressione più comune: ti voglio bene! Non sarà facile invece convincere a leggere poesia gli integralisti o i kamikaze islamici, né i venditori di armi che vivono della morte procurata: è del poeta però ancora il compito di testimoniare - improduttivo forse nel breve tempo, ma certamente (com'e sempre stato) portatore di luce futura - qualcuno, un giorno, leggerà, saprà, capirà. Sempre meno, ma è ancora possibile.

4 - "Diciotto anni: muore di parto - avviso al ginecologo": come può accostarsi la poesia ad una tragedia?
Nella poesia del nostro mondo è già la tragedia del quotidiano assistere senza poter intervenire. Che altro, se non, come appena detto nella risposta precedente, testimoniare una presenza che sia frutto da cogliere per coloro che verranno? Inutile pertanto chiedersi come intervenire nei drammi comuni: a chi interessa leggere di un dramma non suo? il poeta è nei drammi di tutti, anche se detto così può sembrare una boutade o una scappatoia - ma una parola espressa vale solo in quanto lo è, o ha bisogno  di essere letta, capita, metabolizzata...
Povere le parole del poeta, se non leggono cuori:
io credo nella parola quando è lievito.
Voce d'uomo per l'uomo, ma forse di uomini ce ne sono sempre meno e sempre meno disposti ad ascoltare voci d'uomo.

5 - 1950/2000. Quasimodo, Ungaretti, Montale / Baudo, Zichichi, Scalfaro; ancora un confronto che non tocca gli addetti ai lavori; ma il grosso pubblico dà ascolto soltanto a Baudo?
Sembra pure banale, ma il problema è come raggiungerlo il cosiddetto grosso pubblico. Forse il grosso pubblico leggeva l'odi et amo e il carpe diem? eppure nei millenni avvenire quella poesia ha avuto il grosso del pubblico. Forse fra cento anni pochi ricorderanno Baudo e lo stesso Scalfaro, chissà, Zichichi… Inutile credere e predicare che ci sia una richiesta di poesia, se non ci inventiamo la poesia multimediale, se chi crede di scriverla non comincia anche a leggerla, se non offriamo agli studenti un'immagine meno convenzionale del poeta, dai classici ai nostri contemporanei... La parola del poeta non ha comunque bisogno del grosso pubblico, ma si contenta di esistere e rimanere - è una battuta, ma bisogna piuttosto che sia grossa la poesia: il pubblico, quello vero, modesto ma che dura, verrà.

6 - Quale valore può avere la poesia in un contesto sociale che è protagonista di "labbra e seni al silicone", di "uteri in affitto", di "manipolazioni genetiche", di "Alzheimer sempre più diffuso"?
Non ci casco anche se so che la risposta giusta è… la poesia dovrebbe recuperare i valori di genuina umanità e il poeta non dovrebbe sporcarsi le mani e nemmeno la bocca partecipando al bla bla di moda (neppure se lo chiama Costanzo in tv). Ma... Certo le tette siliconate delle nostre maggiorate fasulle non saranno degne di bagnarsi nelle "chiare fresche e dolci acque" nelle quali "l'angelico seno" di Laura ispirava ben altri sentimenti che le sconce voglie nascenti da certe giacche aperte a mostrare preziosa lingérie... Non ho mai scritto una poesia per la Parietti o la Dellera... ma non ho paura delle manipolazioni genetiche: sono tutte (anche la Parietti e la Dellera, in certa 'misura') frutto della scienza, e la scienza è progresso, è l'uomo che cresce. La poesia pure, anzi, ha cominciato ad essere manipolata già da un bel po', e gonfiata e affittata (e per la mia vecchia idea che la poesia è 'maschia', in quanto seme che feconda, sono proprio convinto che il suo 'utero in affitto' sia la mente del lettore). Tutta la retorica, comunque, è chirurgia della parola - e solo per non fare pubblicità probabilmente nemmeno desiderata conviene tacere dei tanti che nel tessuto linguistico operano da tempo e con successo col bisturi del proprio codice espressivo.

7 - Nel divario di potere editoriale Nord-Sud cade anche la distribuzione del volume pubblicato. Hai trovato qualche difficoltà nel passato ed ancor oggi per i tuoi volumi?
Non credo in ogni caso che si tratti solo di potere editoriale, anche se mi dispiace ammetterlo, come sudista orgoglioso figlio della Magna Grecia: al Nord si legge e si compra di più. Io, sarà che sono sfortunato, ho pubblicato al Nord e al Sud, con piccole/medie case editrici che non mi hanno assistito molto. Di qua e di là dall'Oceano, diceva il buon Orazio, i librai si arricchiscono se fiutano l'affare editoriale: un libro si distribuisce se si vende. Quanto vende (e rende) un volume di versi? Reggerà anche la scommessa mondadoriana dei Miti, se invece di Ungaretti e Dickinson proporranno Accrocca e Rosselli? Un noto editore del Sud, rifiutandomi gentilmente la pubblicazione in una collana scolastica delle mie traduzioni dai lirici greci, osservava: "professo', ma gli alunni vostri se lo comprerebbero il vostro libro?" (dovetti rispondergli: no).

8 - Moltissime case editrici chiedono al poeta enormi somme per la pubblicazione di un volume E' lecito? Se versassimo tali somme a gruppi sociali meno abbienti? Alcuni di essi sono lontani un miglio dagli interessi poetici perché afflitti dalla fame, ma nascondono anche dei valori e dei sentimenti inattesi.
Ogni sfizio ha il suo prezzo: chi se lo vuole togliere, sa che deve pagare. Sarebbe più interessante, ma sarebbe un altro discorso, quello della promozione dei meritevoli, scelti poi da chi e pubblicati da quale coraggioso editore? Ogni tanto mi chiedo - ripensando a quel noto critico che mi invitava a lavorare in eremitaggio - quale sia la funzione del critico, se non quella di scoprire, e proporre alle case editrici, gli autori da pubblicare, da leggere (invece di continuare a reclamizzare quelli già letti, che comunque si leggono e vendono... ah, già, vendono, quindi convengono, eccetera). Il problema degli affamati che non hanno interessi poetici è alquanto ambiguo - o mal posto in questo caso: non è che il poeta possa materialmente avere il compito di sfamare i poveracci (pur essendo io convinto dei loro sentimenti rispettabilissimi)... Riuscisse almeno a soddisfare gli appetiti intellettuali e i bisogni spirituali di chi gli è più vicino. Sarò ancora un po' elitario, ma non credo che, devolvendo ai poveri le decine di milioni spese in un quarto di secolo per pubblicare i miei libri e per leggere quelli degli altri, avrei risolto realmente qualche problema sociale in più. Mi basta - se ce l'ho fatta - aver sollevato ogni tanto qualcuno dalle sue pene esistenziali.

9 - Un uomo della strada che ha letto una tua poesia te ne chiede una semplice spiegazione: come reagisci?
E' l'ovvia appendice della risposta alla domanda precedente. Magari fosse davvero l'uomo della strada a chiedermi seriamente spiegazioni di una mia cosa! Significherebbe che l'uomo della strada legge poesia; legge la mia poesia... Non importa comunque molto chi e perché mi legga: scrivo, continuo a scrivere perché sono convinto che la mia esperienza esistenziale e il modo in cui ne parlo possano rivelarsi altrui. Scrivo con la presunzione di essere utile, a chiunque abbia voglia e coraggio di misurarsi con se stesso, con la sua voce: in me, nel mio vivere, nel mio dirglielo, deve trovarsi, riconoscersi - se è di strada o di salotto, è pressoché indifferente, per quanto, considerato il mio modo di scrivere, è più probabile che mi comprenda uno che abbia già letto altre cose.
In conclusione, con un pizzico di polemica ironia: interroghiamoci pure tutti insieme e facciamoci portavoce presso il pubblico delle lettere di queste nostre risposte, utili segnaposto per capire chi siamo, ma non facciamoci spaventare da uno specchio che va diventando altro da quello che vorremmo: noi saremo comunque il saltimbanco dell'animaccia loro (che lo vogliano o no).

Gaeta, 19 marzo 1996  ("malinconie di sangiuseppe")

13 Gio  Ferri

1- Salvo rarissime fortunate eccezioni storicamente individuabili (esempio classico: Majakovskij e la rivoluzione russa), la poesia – essenzialmente prodotto “inutile” dell’intelligenza – non può avere alcuna influenza “diretta” sulle vicende collettive e politiche, per le quali van meglio ovviamente la pubblicistica politica, l’azione concreta eversiva, di resistenza o umanitaria. Grande invece può essere la presenza “indiretta” della poesia sulle vicende del mondo. La poesia rivoluziona i linguaggi manieristici e oppressivi, e un popolo (ma, oggi, dov’è?) che partecipasse a una tradizione di “grande poesia” (e, nel complesso, di grande cultura) sarebbe un popolo “moralmente forte”. Ma anche in questo caso non mancano le eccezioni e le strumentalizzazioni: si pensi a Wagner e all’uso che ne fece il nazismo. Conclusione: lasciamo che la poesia “pensi a se stessa” e i pochi uomini che la leggeranno “saranno sicuramente diversi”.
2- Poeti, filosofi e scienziati lasciano tutti segni indelebili. I poeti e i filosofi li lasciano silenziosamente e sotterraneamente, e la loro “parola” non muore mai. Gli scienziati li lasciano immediatamente, o quasi, esaurendo nelle tecnologie prammatiche la carica eversiva delle loro idee e delle loro scoperte (sempre parziali e temporanee).
3- La poesia si accosta alla tragedia come “crisi”, proponendosi “totalmente” nella sua specificità di “perpetua parola di crisi”. Il fatto scatenante varrà solo come “pre-testo”.
4- Accademia, underground e internet, e quant’altro, forniscono solo mezzi diversi di comunicazione. Un mio libro di poesie, a seconda delle circostanze, potrebbe servirsi di qualunque di questi mezzi per risolvere la sua naturale esigenza d’essere conosciuto.
5- Il problema è sollevato dall’uso scorretto (ma volgarmente utilitaristico) dei mezzi di comunicazione di massa. Per ora il Grande Fratello ha vinto. E popoli (o masse, o grosso pubblico), irretiti dalla volgarità organizzata ed economicamente proficua, hanno perso la loro capacità creativa autonoma, un tempo ispirata dalla … e ispiratrice della …grande poesia.
6- La poesia “è l’estrema sintesi della parola e del suo discorso”. Il suo valore (assoluto e totalizzante) può essere contingentemente offuscato da certi “processi culturali” deviati e devianti. Tuttavia, anche nella clandestinità il suo valore rimane inalienabile, perché è il nocciolo duro della mente, cioè della fisiologia e della biologia dell’uomo nella complessa e complessiva e misteriosa vicenda cosmologica. I “fatterelli” quotidiani e gli eventi storici, buoni o cattivi che siano, passano: il “segno sintetico e materico e sensitivo (poesia) della presenza dell’uomo nell’universo, resta”.
7- La poesia ha sempre vissuto di mecenatismo e autogestione. Non è mai stata mercificabile, ed è bene che sia così. Le speculazioni dei falsi editori, soprattutto sugli esordienti, sono ovviamente condannabili. Ma il costo del mecenatismo  sincero e appassionato e dell’autogestione non può essere trasferito sui costi dell’assistenza e della solidarietà: la cultura e il pane hanno lo stesso peso nella esistenza dell’uomo. Non ci può essere l’una senza l’altro, e viceversa. Il problema della miseria materiale non è di pertinenza della “caritatevole buona volontà” (concetto farisaico-cattolico-demagogico), bensì di una radicale rivoluzione nella gestione dei beni della terra. In quanto ai popoli afflitti dalla fame posseggono sempre una loro radicale cultura poetica di grande valore (che purtroppo, paradossalmente, arrischiano di perdere proprio con quella colonizzazione occidentale che dà loro l’illusione di un modo meno tragico di vita).
8- La distribuzione editoriale della poesia è “ovunque” un problema irrisolto e comunque legato alla stessa natura non utilitaristica della vera poesia. Alcune motivazioni di questa situazione si trovano nella risposta alla domanda numero 5.
9- Nell’attuale situazione è difficile che un uomo della strada (colpevole in primo luogo la scuola) legga anche accidentalmente una poesia mia, o di Zanzotto, o di Sanguineti, o di altri. Non conosce me, né Sanguineti, né Zanzotto, né Spagnuolo, né altri… della stessa “razza” (al di là dei singoli intrinseci valori). Mi capita di cercare in varie occasioni ( in incontri programmati o sui luoghi del lavoro o del tempo libero) di discorrere di poesia con “l’uomo della strada” e allora più che fornirgli la mia interpretazione di una poesia, cerco di approfondire con lui le specificità della poesia, e l’approccio alla sua valenza “fisiologica” e insostituibile.
- Caro Antonio Spagnuolo sino a qui le mie nove risposte al tuo questionario, ma io ne aggiungo altre tre (domande/risposte) … che mi faccio per conto mio.
10- “Che fare per intervenire positivamente su questa disastrosa (ma non      nuova!) situazione?” – Scrivere in silenzio e lavorare cocciutamente (accantonando ogni perplessità) sulla parola, a livello creativo e critico. Non perdere occasione per rendere pubblico (in particolare nella scuola e nell’università) il problema della poesia e il valore della sua naturale essenzialità. Ogni uomo ha tanta poesia in se (nel suo flusso sanguigno e metabolico) di quanto non creda o sappia. Ogni uomo, in estrema sintesi, è poesia.
11- “Questa battaglia non è impari e illusoria di fronte alla devastante forza dei mezzi di comunicazione di massa”? – E’ impari. Ma va comunque combattuta. E non bisogna perdere occasione astutamente dei mezzi di massa. Ora per esempio, l’inserimento in internet, là dove sia possibile, della poesia e delle sue problematiche non va assolutamente trascurato.
12- “Questi problemi riguardano solo la poesia di parola?” – No. Riguardano ogni genere creativo. Cioè riguardano la qualità di ogni genere, fino alla pubblicità, alla moda, e al rock.
(marzo 1996)

14. Mariella Bettarini

1) Ah, la poesia... Se potesse "Intervenire contro la incapacità di ascoltare"! Ma forse già lo può, già "interviene'' presso chi è già capace di ascoltare (mi dico). Questo è già il "miracolo" il suo enorme potere: di ricordare , di rammentare (Tutto, Molto, Qualcosa) in chi è capace di ascolto. E gli altri? E chi non è capace? Vi hanno tentato religioni, filosofie, ideologie, ideali, pensatori, santi, profeti, eppure... Può (davvero) la poesia compiere anche questo miracolo ? Non so (o - peggio - non credo), Perché non bisogna credere, non bisogna mai credere che la poesia sia fatta (sia portatrice) di buoni sentimenti, né di buoni pensieri. La poesia è fatta di poesia: ed è già tutto. Però, però, se si cominciasse dai bambini, se si cominciasse da bambini a sentire, a pensare di più, e meglio e in proprio, e meno egocentristicamente... Ma non parliamo (ohibò) di scuole di poesia: scuole, spesso, di vanità e dì buone intenzioni. E basta. Rifondare, "riformare" la (singola) coscienza, le (comunitarie) coscienze è opera lunghissima, complessissima, globale. Dunque, forse, cautamente, anche traverso la poesia. Ma non facciamone la panacea di tutti i mali. Non santifichiamola (per carità), per renderla più inaccessibile e - dì fatto - solo innocua: solo perniciosa vacuità.
2) Chi lascia "un segno indelebile"? Apparentemente di più la seconda triade, quella per così dire - scientifica di contro a quella "umanistico-letteraria". Ma poi, riflettendo meglio, direi di no ad una tale contrapposizione (semmai, farei altre triadi: che so? Leopardi/Dickinson/Lee Masters o Kafka/Beckett/Gadda o Caproni/Rosselli/Landolfì o Zanzotto/Moore - Marianne,' ga va sans dire/Celan, o... o... Tutto, tutti lascia/lasciano un "segno indelebile": bisogna vedere come, a che livello, in chi. Soprattutto la cultura (umanistica o scientifica: no: umanistica e scientifica) prevede una delicatissima e insieme amplissima indagine sulla quale riflettere a fondo, anzitutto per capire che cosa s'intende per "cultura". Dobbiamo metterci d'accordo su questo.
3) La poesia può (anzi direi "deve") "accostarsi ad una tragedia" non tanto perché essa stessa è (spesso) frutto di una (personale) minima o massima tragedia (questo devierebbe tragicamente li discorso: e allora la poesia satirica? la poesia giocosa? la sperimentazione ludica? il surrealismo? ecc. ecc.) quanto perché niente di ciò che è umano dovrebbe esserle estraneo: dunque anche una tragedia (personale o collettiva), ma non in senso prioritario o privilegiato. E mai in senso sacrale, sublimato, bensì molto concretamente, molto prosaicamente, prosasticamente. E' arrivata l'ora di farla finita con la poesia superiore (o comunque distinta) dalla prosa, con la tragedia superiore (o distinta) dalla commedia, dalla satira, e così via. Credo sia proprio arrivata l'ora della fine degli steccati: anche in letteratura.
4) "Inserire" dove, please? In una delle tre culture ipotizzate ("accademica": per "pochi eletti": eletti da chi?. "Underground": esiste ancora? Non credo: non, almeno, come ,.alternativa" a qualcos'altro, ma come la cultura che non ha accesso ai successo, o ai mass media o... la cultura letteraria, la letteratura o è "di qualità" o non è, senza più aggettivi. internet? Una cultura forse davvero "globale", ma Internet non è solo un mezzo? 0 dev'essere considerato soprattutto un "fine".? A questa seconda ipotesi io, francamente, non riesco ancora a credere).
"Inserire" un mio volume di versi in una delle tre culture? La domanda - a mio avviso - non è molto chiara. Un libro di poesia, se di poesia (e non d'altro) si tratta, dovrebbe (almeno teoricamente) non "inserirsi" quanto "farsi ascoltare" (vedi domanda n. 1). Se non vi riesce, è proprio inutile che voglia o possa "inserirsi".

5) Sì, ancora due triadi (tra le moltissime possibili). Ma (mi sono sempre chiesta) chi è il "grosso pubblico"? La cosiddetta "massa" (quella di cui si dice quando si parla di "cultura di massa")? Quella di Massa e potere ? Quella degli stadi? Quella che fa "opinione di massa"? 0 quale altra? Ma anche gli "addetti ai lavori" non danno (ad esempio) ascolto a Quasimodo come a Montale? A Ungaretti come a Scalfaro? 0 vogliamo dimenticarci le cosiddette (e sacrosante) "parti sociali" le "classi" (magari di idee), le "parti politiche" e così via? Dunque, può magari avvenire che qualcuno preferisca dare ascolto a Ungaretti e a Zichichi, e un altro (che so) a Quasimodo e a Scalfaro. 0 (perché no?) anche a Baudo (fenomeno televisivo quant'altri mai: dovremmo chiedere ai grande Enrico Ghezzi). E magari avvenire che altri giurino sull'accoppiata Montale/Scalfaro, ecc. ecc. Quale e quanta casistica si dà solo fra due paia di triadi. Davvero le vie dei gusto (e della coscienza e della sensibilità ecc. ecc.) sono infinite...
6) Non contrapporrei affatto uteri a poesia, seni ai silicone a poesia, morbo di Alzheimer a poesia. insomma, non contrapporrei mai e poi mai niente di niente alla poesia. Non ci potrebbe, ad esempio, esserci poesia sul morbo di Alzheimer? 0 poesia dedicata ai problema delle manipolazioni genetiche? 0 poesia dedicata a chissà quant'altro? Sarebbe assai grave, sarebbe tragico se la poesia non riuscisse a "stare al passo coi tempi", come si dice. E nel nostro tempo le cose summenzionate sono parte integrante della realtà. 0 la poesia è anche realtà, o non è. (Certo, una realtà totalmente intrisa, mescolata, coniugata con la più totale e libera e sfrenata e "virtuale" delle fantasie e delle realtà).
7) Credo proprio non sia lecito che molte case editrici ("anche di etichetta") chiedano somme enormi a chi vuole pubblicare i propri libri di poesia. Credo ci siano troppi che magari cercano di arricchirsi con il lecito (questo sì) bisogno dì "farsi ascoltare" da parte di autori che, oggi, in Italia, non trovano assolutamente editori, se non a pagamento (ancor peggio dei denaro, ci sono altre forme di compra-vendita: personale, politica, accademica, di sudditanza di svariati tipi). Ma la poesia come si fa a venderla? Bisognava proprio aspettare i mitici "Miti" di Mondadori per accorgersi dei boom della poesia? E' un cane che si morde la coda. Si vuole che la poesia "entri" profondamente in un tessuto sociale, in una società, e poi non si sa che fare, come fare? Andrebbero davvero ricostruiti tutti i nessi letteratura-società, poeti-pubblico, autori-editori, cultura-produzione, ecc.
Quanto poi a versare le somme che un autore il più delle volte spende per autopubblicarsi, beh, questo è tutto un altro discorso. Avremmo, allora, "Poeti nazionali" (e magari internazionali) belli e benedetti, pubblicati e pubblicizzati gratuitamente magari dallo Stato (o da chi per lui) e tutti gli altri cosiddetti poeti assurti a santità di meravigliose (e augurabili) opere di giustizia, veri e propri Robin Hood della situazione. (Ma allora, mi chiedo, gli altri, i Veri Poeti, i Poeti con la P maiuscola, sarebbero dei volgari menefreghisti, o darebbero ugualmente il proprio contributo sociale, tanto più arricchiti dalla strabocchevole vendita delle loro opere da parte dei Veri Editori?). Come si nota, è un caos notevole. 0, meglio, un notevole casino. Una casistica tutta da verificare. Soprattutto, davvero "virtuale" e fantascientifica. Ma, certo, sul fatto che molti/editori di poesia siano dei profittatori e dei ladri proprio non ci piove.
8) Ah, quello della distribuzione (ai nord quanto ai sud, se si tratta di piccoli o piccolissimi editori) è il problema principe dell'intera questione editoriale che concerne la poesia. Credo che - legato alla distribuzione - ci sia ancor prima il problema dei far conoscere il libro, ossia la pubblicità, le schede informative e critiche anche sui quotidiani di grande tiratura (quanti degli infiniti libri di poesia che escono annualmente in Italia "passano", ad esempio, sulle pagine di "Tuttolibri", tanto per non citare che uno dei canali letterari informativi senz'altro di molto vasta diffusione? Contare per credere).
Se ho trovato difficoltà per i miei volumi? Non solo ho trovato difficoltà nella distribuzione, ma ho trovato e trovo tutt'oggi (dopo 35 anni di scrittura, e circa venti libri di poesia pubblicati e auto-pubblicati) difficoltà nel trovare un editore che non chieda a me (e a chissà quanti altri) di sborsare molti soldi per un libro che poi non sì vede da
nessuna parte: non solo in libreria, ma neanche da parte degli "addetti ai lavori". Che mi/ci chieda soldi per un libro, di fatto, nato e morto. Noi (Gabrielia Maleti ed io di Gazebo) abbiamo tentato di risolvere l'annosa questione non promettendo nulla di falso ai nostri autori: la distribuzione in libreria non avviene (sarebbero  "promesse da marinaio") ma forniamo l'intera tiratura dei libro all'autore, assieme ad un ricco indirizzario di critici e riviste, per un invio "personalizzato" e di solito molto fecondo, se il libro ha un valore letterario almeno discreto (al di sotto di questo livello noi diciamo dei grandi e assoluti "no"). Così non vendiamo illusioni e, soprattutto, ci permettiamo il lusso (un diritto/dovere) di essere fortemente selettive nel pubblicare, proprio perché l'autore . si paga le spese di stampa. Ma che almeno sappia di uscire in una Collana che crediamo seria perché qualitativamente molto severa.

9) Lo assecondo tentando di spiegare lo spiegabile; soprattutto tentando di spiegare (con la maggiore modestia e semplicità possibili) che talora la poesia proprio non si può spiegare. Raccontandogli che persino il suo autore talora non sa che cosa ha scritto. Dichiarandogli, insomma, la mia quasi assoluta ignoranza sulla poesia. Soprattutto, cercherei di assecondarlo parlandogli "da uomo a uomo" (nei mio caso, "da donna a uomo"): con il massimo dì emozione, ma anche con il massimo di non-enfatizzazione. Per consentire, appunto, quel "tentativo di ascolto" che la poesia postula (e anzi pretende). Gli direi, infine, che sono completamente solidale con la sua (eventuale) ignoranza: con la scuola, la società, i mass media che ci ritroviamo!

Marzo 1996

15. Alberto Cappi

1- Bosnia e Cecenia, cioè la storia, cadono come nomi nel discorso della poesia. La poesia, che è ascolto dell’umano e del suo darsi in parola, che è far nome diverso della cosa, assume tutto il dolore e la pienezza di una situazione per figurarli  nella propria forma. Se il lettore è “ipocrita” è perché la poesia lo sorprende, lo abita, e, nonostante la sua cultura, pone in lui i semi di un nuovo sapere. Che è, anche, nuovamente ascoltare.
2- La scienza? Il linguaggio scientifico pronuncia l’affermazione, la sua semantica è denotativa, l’unità e irrecensibile. La poesia? Fa si che un segreto, la parola, passi nelle parole. Così porta una voce misteriosa, si fa portavoce non dei significati ma del senso. Qui l’enunciazione è annunciazione e l’enunciato è annuncio. Un segno imprendibile, che produce, anima, trasforma, non si può cancellare.
3- Dopo i campi di concentramento e la bomba atomica sembrava assurdo dire, fare, baciare la poesia. Non si ha realtà nel poetico, piuttosto reale e immaginario. Una tragedia o ferita originaria lo inaugura. Non si accosta all’errore ma lo incorpora. Questo farsi errore, errare del poetico, non evita l’opacità del mondo, né la giudica. Conosce e sa: legge la sua legge in un canto che di per se è salvezza.
4- La tripartizione del modello è solo apparentemente discratica. Penso ad esempio ad un mio piccolo testo, “piccoli dei”, pubblicato da una piccola editrice, trasmesso e approvato dall’accademia culturale e ora sulla via della telematizzazione. Non c’è un dove può camminare la poesia. Un come, si.
5- Il confine dei media traccia una linea divisoria nel tempo della cultura perché impositivo di nuove attese. Crea atteggiamenti, scene, folclori, contagi. Baudo è oggetto d’ascolto e di consumi perché  kit & kat fantasmatico che ingrassa il pubblico. Perché tanto il pubblico è “grosso”. Senza cannibalismi d’immagine la poesia parla in silenzio. Parla il silenzio.
6- Il valore della poesia è improprio. Non sta né nel protagonismo né nel deuteragonismo. La sua strada non è di parte, semmai è a parte. Non  è a misura né del sesso né della patologia. Incommensurabile, non fa merce né mercimonio.
7- Il gesto della poesia è estetico. Il gesto della poesia è etico. La parola dice e da. L’autore…?
8- I volumi che portano il mio nome poi l’abbandonano. La loro parola comunica con altre parole, parole di altri, in altre territorialità. Non fanno mercato. Visitano gli amici e con loro si intrattengono. Infine si consumano restituendosi al silenzio.
9- Davvero ho trovato lettori sulla strada della poesia. Davvero abbiamo spezzato, in umiltà, assieme, il pane del verso.
 

Aprile 1996


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