VICO ACITILLO 124 - POETRY WAVE
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Direttore: Emilio Piccolo


Sans passion il n'y a pas d'art


Eidola
Sonora
A cura di Emilio Piccolo

     Maria Valente
     In dovizia fiamminga

     (Lettura di Maria Valente)

   

E’ con un taglio d’acqua dura come pietra
che cedono le dighe dai deserti amplificati
resi cronici dalle fami chimiche
delle proprie omissioni e l’artificio
delle notti anemiche con amici al silicio
o dentro un sonno lungo barbiturici.
 
Primi  ad esplodere sono i gelsomini
di questa primavera in pieno inverno che è fenice
e bruciano gli occhi a grumi. di sabbia. a morsi.
della rabbia ambulante, cremata, resta cenere sparsa
nella stretta degli aghi degli abbracci soffocati.
 
Altrove, dopo, tocca alle stoviglie,
prendere fuoco come ipostasi.
nelle vetrine in frantumi sono esposti
i desideri addomesticati, fraudolenti,
come nicchie di baci soporiferi sedati o
placente di stracci o altri corpi radianti
splendore di truffe nei silenzi crepati
ad accudire le muffe.
 
Di malessere empirico sono piene le case
assiduo come lo sfratto
Di tanta primavera ora che ghiaccia non resta
che una bacca rubino che prilla
come dama assortita all’insegna:
si dispensa dai fiori, “free hugs”.
 
Tutto è immobile tutto ancora oscilla
nei caroselli per pupille pettinate
pupazzi in calzamaglia e lune a dondolo
scolpiti in qualche direzione di spazio cieco,
col respiro più opaco dell’orbita
che riassorba le perdite, il vuoto stagionato
 
delle donne con il cuore pezzato
e un papavero raccolto dalle ciglia
che attraversano le vene a specchi spenti
su una ruota ancora tiepida di prato
dove sputano il veleno dei serpenti
 
Nessun principe flautato ha mai soccorso
un cadavere sul greto ma parasimpatico
ma ciascuna da sola soffia sonno muschiato
- tana libera tutti gli occhi senza nascondigli
di una stella sbracciata
 
Eppure bastava, sarebbe bastata
anche un’ora di glassa
sottovetro con sole- piccole gioie
sottopancia esalate e una falena
agitata come fiaccola che scalcia
per cantare felicità a gole spietate
in una nocca di madre con bambino
tutti i sogni di cartilagine imballati
-sola sì, non così sola, anzi superflua
come testuggine fiorita a margine
di quel prodigio con le radici ancora attaccate
con il corpo incompleto e già in forma di nuvola,
tra una fata morgana e notte tortora.
 
(L’amore che non ha bisogno di conoscere per amare)
 
La sentinella silenziosa e vigile
che non si appropria delle cose, le accosta soltanto
a partire dal corpo al quale resta incollato
se lo spirito cede e le cade dagli occhi:
 
l’incredibile tenerezza che ci tiene legati
a questa forma fragile a qualche forma
di nuvola con raganella e sonaglio,
al simulacro senza somiglianza,
la somiglianza che pretende fedeltà
la vicinanza straordinaria,
la sottile discrepanza
tra il polittico del respiro e il collirio stellato
tra soffioni di affanni e un tramonto spillato
che intercetta un angelo sulla parete
- ma com’è entrato?-
uno spicchio di vetro tra cielo e dintorni.
 
tutto ciò che c’è qui dentro non lo possiedo
tutto ciò che è perfetto appartiene a un altro
tu che ami solo per perdere, ikebana
sei come l’arte di raccoglierti vena in un vaso
devota al compost, Angelus Novus di percolato
e sono spighe di taffettà lasciate aperte dall’acido
nuovo paesaggio rovina con acquerello
di panchine alla deriva.
diossina nelle vene, arsenico nell’acqua
e il latte delle primipare avvelena i pozzi
 
(e nemmeno un iscariota all’orizzonte)
per prescrizione dei reati
 
tutti i tramonti a quadretti ripiegati
con donna sullo sfondo che tanto
occupa poco spazio confezionata
amorevolmente come pantofola
o vasino da notte oppure burger
queen un tanto l’etto avvolta in
fogli oleosi di inchiostro tipografico
o con la  bozza livida corretta al digitale
o virgo in edicola e lumi sotto il genitale
reliquia d’appendice e altra venere acefala
che detta leggi di sterilità, vivere rattrappito
e un’altra lectio di rigor mortis col tulle- tutte
le primavere adesso tombe e un tempo culle
 
-quanto altro lutto chiameremo giudizio?
e quanti loculi a tariffa?
ma sono zone narrative troppo fragili
per questa lingua di paglia e cipolla
per queste favolette da ospizio:
 
da cerniere di terra dove Stella filava,
a  Barletta per quattro euro lorde,
spunta ancora un sospiro cotone
ed è sempre la stessa canzone:
qui riposa in dovizia fiamminga
la speranza con i pugni asfaltati
qui si scava la fossa
la memoria dell’umido
dall’infanzia scorticata
la vaniglia delle piaghe
che ci colano addosso,
la frangetta degli occhi
dolcemente cerchiati di rosso
di una sposa operaia
 
Tutto ciò che desideri è qui.
e se sapessi che è tutto qui, cosa faresti?
e se non c’è altro mondo allora è una buona notizia:
dalla parte bruciata anche il cuore si usura
senza potersi ancora dire esonerato e
allora non sprecarlo, non buttarlo, non buttarti via!
e quando penserai di averne avuto abbastanza
di questo straccio di cuore malandato
tendi la mano ancora aperta come stellina
la vela gonfia ad almanaccare col vento
smarrito il senso trattieni  un suono ancora
sulla bobina  come respiro che passa ma
carico di intenzioni
e che la luce filtri ancora attraverso le crepe
coi suoi ricami di polvere e presto torni a fiorire,
 
che tutte le sue creature di dolore vengano lavate
asciugate, accudite una per una e ricondotte all’ovile
e che qualcuna sopravviva pure a molte lune e notti
insonni di questo cuore disfatto – ma non buttarlo-
lascia asciugare le sue ali come dolore e lascia pure
che qualcuna diventi fiore, conchiglia, fiammifero,
farina e qualcuna corallo.

Legge Maria Valente


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