VICO ACITILLO 124 - POETRY WAVE
Electronic Center of Arts

Direttore: Emilio Piccolo


Sans passion il n'y a pas d'art


Gatti rossi
Del situazionismo ed altre cose
a cura di Emilio Piccolo



Il corpo urbano
di Emilio Piccolo

   
Dopo il dopo è dopo.

Dal confronto nel tempo, con ciò che siamo stati e ciò che permane, sia pure allo stato di residuo, non emerge alcuna traccia della mutazione: solamente la riorganizzazione e la ridistribuzione della fisicità come struttura temporale, in cui la città traduce il suo senso. Ancora una volta niente ci dimostra che si possa fare a meno del luogo comune. Ma è forse questo che elimina ogni possibilità di origine, di gerarchia e di feticismo, dal momento che non si tratta solamente di sostituire l'affermazione con la negazione, ma di trovare il 1uogo dell'io sostituisco, il gesto di questo io sostituisco, e non la sua proposizione.

Il corpo è l'epifenomeno, la non?struttura, matrice dell'entweder?oder e di ogni dialettica; oppure chiamando omologo il corpo per l'occasionale conformità alla ragione, esso - se ha una storia, o una memoria che intenda ad una storia (sia pure per fratture di ordine irriducibile o per un continuum da x a x', che a sua volta se ne costituisca codice di lettura e di déch¿ffrement) - è sempre, e in ogni caso, una situazione, in cui tautologia e differenza non sono altro che concretizz?azioni del fare, cioè del corpo stesso, che procede per scarti e per riduzione di senso, intendendo così alla sua costituzione, che è (anche) quella del processo est/etico.

Non siamo nulla di più di ciò che diciamo.

La città riduce omologo a documento.

La forma del corpo è la situazione: quanto più esso diventa da portatore di significato puro segno privo di qualità, quanto più trasparente è la sua leggibilità come oggetto di investimento del mercato, tanto più diventa una astrazione e la vita quotidiana tautologia (e ling?uaggio).

I1 disagio (disorientamento) è il punto del corpo: nulla più d? una sens/azione privata, di un supp1emento di fisicità che eccede il significato della città (anche il mentale), in quanto apertura all'unwesen.

La fisicità non è un contro?discorso.

Nel dire le (nostre) contraddizioni come contrassegno della (nostra) verità, ci chiediamo nel linguaggio, diventando nomenclatura, un segnale della città.

I1 corpo come segno dell'io è una costruzione della città. L'io come corpo è solo il cadavere, e la città ci rende cadaveri.

I1 mio corpo è ciò che emerge dai rapporto con ciò che, estraneo, mi costituisce, costituendosi esso stesso in questo rapporto, che pone il limite come punto di contatto, in cui consiste la fisicità.

Non è (più) (ancora) possibile pensare questo e quello, qualunque cosa ciò significhi.

Siamo, ancora una volta, dentro: irretiti tra pulsione e oggetto, desiderio e bisogno, il non-utensile della solitudine (anche psicologica) ci riconduce al tempo/merce della città, che propone ad omo1ogo il consumo come limite della sua ri?producibilità.

L'interiorità è una costruzione dell'economia di mercato the consente la riappropriazione significante di un plus valore.

I1 bordo non è né il tavolo né il nulla nel quale cade la mia mano: allo stesso modo l'esistente (la città) tradisce nell'apologia metafisica del libro, in cui si cita, l'incongruenza di concetto e realtà. Tuttavia, dal momento che si considera lo s?radicamento, questo non è già più una miseria: perché il paradosso è che la riduzione metafisica (storica) del corpo ha bisogno della opposizione che essa riduce, sicché 1’ora, il qui viene appreso solo come ciò che trasforma la potenza in atto, di cui è sempre possibile ridestare l'origine e anticipare la fine nel tempo della presenza. Infine, è un problema di economia e strategia: perché c'è un gioco sicuro, quello che si limita a sostituire pezzi dati e esistenti, postulando solo la necessità dell'interpretazione e della ripetizione; e un altro gioco: il gioco della mia mano, al di là dell'uomo (e dell'umanesimo) come impossibilità del pensiero di rendersi commestibile. Ora è questo gioco (la mano, la morte) che ci rinvia alla trasgressione della città (il libro) ed è questo che protegge, rendendolo im?possibile ogni tentativo di trovare un linguaggio per il pensiero dì limite.

II mio corpo rappresenta ciò che rappresenta, indipendentemente dalla propria verità o falsità, mediante la forma diretta dell'autorappresentazione.

Vediamo e leggiamo con organi differenti.

Ciò che emerge è l'interiorizzazione esclusività del soggetto in crisi.

La consapevolezza dei corti circuiti in cui siamo fisicamente immersi non può essere misurata, forse, se non a livelli successivi di ipotesi, in un gioco di eventi, parole, gesti, il cui valore d'uso (non) coincide con quello di scambio e la cui più o meno occasionale singolarità, non priva di fascino, con cui appaiono - senza che siano visibili i motivi per cui si danno qui ed ora - non scalfisce il senso di inanità, con cui avvertiamo il rigurgito inquieto di passione, il degradarsi di omologo nel tempo lineare della s/oggettività.

La vita quotidiana è l'id?entico (e il particolare, che non ha consistenza, se non specifica).

I1 linguaggio sublima il desiderio (la fisicità) in (falsa) coscienza, metabolizzando il limite (storico) nell'assoluto (naturale) e inscrivendoci nell'analisi descrittiva, fondata sul culto dell'esistente (la città) e sul dogma dell'irreversibilità (la storia).

L'analisi descrittiva è l'archeologia del contemporaneo: essa promuove l'id?entificazione delle cose con la loro funzione, del segno con la cosa, come se il mio nome indicasse al tempo stesso il mio modo di operare

I1 corpo è radicalmente illeggibile.

L'esistente (la città) sub specie logicitatis è la città (l'esistente).

Se ogni rituale implica una concezione dell'accadere, al permanere dell'id?entità la fisicità non ha vertrauen da opporre, se non il tempo della sua presenza, l'istante della simul/azione.

I1 linguaggio è il segnale del possesso (bisogno, mercato).

Dire il corpo come origine del fenomeno (la città) è senza dubbio non dire niente. Quando è detto, il corpo è già fenomeno.

Gestiti dall'evidenza: il ricorso all'esperienza non è se non un progetto di coerenza in un tempo in cui la città tende a cancellare la contra?dizione di omologo, il suo fluttuare fra i disturbi (privati) e i modi (pubblici) di condotta, perché non venga modificata la necessità del mercato e l'organizzazione compartimentale del senso. Così è la fisicità, de?materializzata, a segnare il passaggio dal mondo al teatro, a marcare lo spettacolo della (sua) socialità, dove l'estensione riduce il rischio dell’intensità: salvo poi a sperimentare, attraverso la pelle, l'in?significanza dell'altro.

I1 mio corpo è il luago/logo di divergenza di mentale e vissuto.

Nella città l'irriducibilità del dopo è formalizzata a metafora:: affermare che la fisicità è il limite della metafora, allo stesso modo che l'io è il limite della logica e, nello stesso tempo, ciò che la fonda, è dire anche, e innazitutto, che la storia del limite (la storia del linguaggio) è il limite della storia.

Noi (non) siamo il corpo che abbiamo vissuto.

La storia è la mia mano.

L'assunzione della fisicità a luogo/logo comune non fa che ritualizzare il dominio del linguaggio che, nel dire il corpo come ciò che (non) è possibile, cancella il tempo della deriva - bio/logica prima ancora che storica - come inizio della mutazione della specie.

Quanto più la città documenta la (sua) verità nella citazione, che è il segno translinguistico della sua evidenza, quanto più questo processo si trama nell'ordine di un discorso, in cui la sostituibilità si rovescia in fungibilità uni versale, tanto più si afferma l'opinio communis che tutti gli errori umani sono impazienza, una prematura interruzione del metodico, una apparente recinzione della cosa apparente.

Se l'errore come di?vagazione è ciò che non ha logica, in quanto comportamento alla deriva, la fisicità che eccede il lavoro del senso, non può che riconoscersi in esso, sottraendosi al metodo.

II linguaggio (word) non è il mondo (world).

II lavoro della sua mano fa vivere in me ciò che non esiste e che la mia mano non è in grado di rendere presente.

Conoscendo: l'intersecarsi, nel s/oggetto, di dominio formale e dominio reale, desiderio e bisogno, l'integrazione di economico e politico riducono la fisicità a luogo/logo comune dell'ipotesi scientista, la cui unica risposta è l'eros desessualizzato e il sesso diserotizzato, ovvero la fungibilità come fondamento (e modalità) della materia.

Il linguaggio, cui intende il corpo, conosce, ad un livello, la cui metaforicità metaforizza se stessa, la vicenda esclusivamente economica della logica che, nel modello cibernetico, rende operative le sue proposizioni.

Senza logica non c'è città né l'id?entità ermafrodita dell'io che si sottrae, ontologizzandosi, all'impossibilità del modello di tradursi in fisicità.

Il mio corpo non sa parlare.

La direzione da (verso) cui il corpo alla deriva di?vaga è quella di una episteme della rappresentazione, in cui è nella tautologia (metafisica) del nome come residuo feudale del discorso che l'id?entità si riappropria, progettando la conoscenza come processo, del divenire assoluto della fisicità. L'ipoteca che ne sortisce è il deterrente della definizione, la magia artificiale della ricchezza interiore, che salda al fascino della pura idealità la miseria del quotidiano, in un rinvio al corpo come segno dell'io e dell'altro, coinvolti così nello stesso discorso di ripetibilità, di linearizzazione nel tempo di idios cosmos e di coinos cosmos, senza cui non c'è storia né città. E allora ciò che ri?vive nell'interiorità è la concettualizzazione del tempo della presenza, che spazializza nel passato il recupero generale del senso e proietta nella leggibilità metaforica del futuro le metamorfosi senza corpo del corpo. .

Nell'insonnia in cui ricordo la sua mano l'inatteso diviene proprio il sempre?da?attendersi.

L'id?entità (non) è una metafora.

La fisicità porta il limite fino al limite del suo essere, a patto di non dirla, di non nominarla nel linguaggio, che la determina e giustifica nel concetto.

La città è il libro, che garantisce la reciprocità differita di ciò che occhio vede (e/o legge) e ciò che la mano fa e di cui « neppure un iota e un apice scomparirà finché non sia tutto adempiuto ».

La sua mano non potrà mai essere la mia, se la vita quotidiana (il mercato) mi ri?consegna alla forma vuota dell'io, al mio corpo come cosa.

Durare nella s/oggettività è consentire alla città di riciclare, nel linguaggio, i suoi interdetti, coagendo al consumo che non ha memoria. E allora (non) consentire alla memona indica la disponibilità a vivere la (sua) morte, l'acquiescenza a sublimare il furto del corpo e la diserotizzazione del desiderio negli aforismi della libertà di parlare (e/o di pensare).

I1 tempo dell'eros, che si ripete, variando, è il tempo del corpo: tempo mitico, senza soluzione, in cui il corpo slitta incessantemente sotto la città.

Tutto ciò che accade è ri?petizione, è il rapporto paradossale con l'altro e, insieme, il limite big?logico di questo rapporto: alienis pedibus ambulamus, alienis oculis agnoscimus, aliena memoria salutamus, aliena vivimus opera.

I1 disordine non appartiene più (ancora) all'utopia.

La memoria è la forma dell'esistente {la città) che si nomina nelle figure im?parziali della dialetticità storica e dell'obiettività scientifica, del dove e del quando.

E' il così ciò che conta.

I1 corpo è riduzione del senso (non al senso), negazione di quella economia ristretta che ne consente la sopravvivenza come metafora, costringendo il gesto, che solo rende possibile l'introduzione del vivente all'esistenza del soggetto, alla disoccupazione mentale.

La fisicità eccede il luogo/logo in cui si costituisce. In ogni caso non è mai un s?mbolo, pur producendo simboli.

Nello sguardo, nell'immagine dell'identità rivolta per sempre verso l’essere, verso la mancanza che, dal di dentro, costituendosene come limite, la struttura, la città diviene reale, può trasformare l'idiotismo del dopo nell'idiozia del rito sociale.

Condannando la fisicità al suo feticcio, la città ci protegge contro la demenza di un contatto diretto con il corpo, ponendosi essa stessa come corpo che comprende di essere (il) mondo.

L'insofferenza nasce dalla distanza del corpo e dello sguardo che lo percorre, dalla metafora che questa distanza è dell'esistente (la città). E allora la mia mano non può non coinvolgere le stesse forme storiche della distanza: innanzitutto toccarsi.

Sulla base della fisicità critichiamo il mondo.

Solo ciò che la sua mano tocca è vero.

E' la mia pelle a sintonizzare una volta per sempre la realtà empirica con quella mitica

Siamo ormai ciechi: ciechi come i ciechi di Bruegel ciascuno dei quali ha la mano nella mano di colui che lo precede, ma nessuno sa dove tutti vanno, perché l'altro che li conduce è fuori della scena, non ha nome, è la cosa che gestisce la sua e nostra anonimità.

Decostituire la distanza, parlando, è sempre e già nella distanza. Allo stesso modo insistere nella rappresentazione è rappresentare l'essere (la sua mano) come avere (la mia mano).

Il linguaggio ricicla nel corpo la negazione-(della)-memoria, totalizzando l'istante e assumendolo nella direzione assoluta della forma merce?valore: metafisica che determina l’essere come vita di una soggettività propria, emissione pneumatica che nella sua distanza dal corpo e nel corpo lo determina come addizione di organi che si alienano (in) ciò che producono.

II luogo/logo comune è il segno di un'archeologia totale, che verifica il gesto come ipotesi di funzionamento formale.

Il corpo è chiamato a testimoniare, come esempio, come martire, su di una struttura (la città, il linguaggio, il sesso) di cui a si preoccupa, prima di tutto, di decifrare la permanenza essenziale.

La sua mano mi si dà come immagine e, contro il mio corpo, tendo a provocare il flusso di questa immagine.

Ciò che è dato (non) è il corpo.

Ciò che prima? sembrava garantire la continuità dell'essere/avere, la memoria, é già trascesa alinguaggio, come ciò che possiede e non viene posseduto, il residuo di un tempo non mercificabile: salvo poi, ancora una volta, a vedersi, nel ludico formalismo del passato, come s/oggetto scisso e in/differente che nulla più conserva, così depauperato e ridotto a cosa e merce, del lavoro originario che l'ha prodotto. Spettacolo a se stesso, il corpo non può che possedersi, come pura forma, spettacolo, cosa. Allo stesso modo, gli occhi che ci guardano sono proiezioni del nostro sguardo, perché riusciamo ad ingannarci fino al punto di pensare che non si tratta più di noi, sono un corpo laddove il nostro sguardo è sedotto dall'ascetismo dell'interiorità.

Il corpo inizia dalla stupidità e termina nella stupidità: in esso causa ed effetto sono intet?cambiabili.

Signum est res: il segno è il gesto.

La sua mano? provoca in me la consapevolezza della differenza nel mio corpo tra gli organi e i simboli con cui li decifro.

Solo a partire da un è troppo tardi possiamo impedire che il desiderio (la fisicità) venga atrofizzata - lasciandoci in balìa delle erinni della stupidità - dalla speranza, figura psicologica della ragione strumentale.

Nel linguaggio tutto è simile, nel corpo tutto è differente.

Attraverso il metabolismo tra ciò che appare e l'apparire, la sua mano può ri?consegnare al vissuto la mia presenza.

La città cancella, con il linguaggio, l'instabilità sublimante di reale e fantastico, costringendo il corpo a formalizzare i procedimenti, attraverso cui la memoria vi si inscrive come tempo della presenza e producendo la storia come contemporaneità.

La fisicità è senso in sé.

La sua mano può usare ogni forma, da un'espressione di parole scritte o parlate alla realtà fisica: allo stesso modo. (Bruciando un Cantos di Pound).

Ciò che rende im?possibile il rapporto fra i corpi è la copula è.

Il gesto con cui la sua mano cancella non è necessariamente citazione di ciò che cancella.

E' qui, nel tempo dello scambio, che la fisicità consuma la sua resa all'aversi, al Senso che cancella il diaframma sensibile della pelle. E il mio nome la verifica, sancendo la parcellizzazione anagrafica della quantità/unità (1+ 1 + 1 + ... 1), la riduzione della qualità a segnale, che indica, biffandolo, il tempo del suo farsi. Così ogni rapporto (io e lei) è riciclato nella (verso) interiorità e il nostro corpo ri?con?dotto allo scheletro a brandelli dei suoi organi, al(l'immagine del) seno da fruire come seno. E allora, se l'immagine è la cosa, dalla distruzione del tempo della presenza, l'interiorità ri?emerge come un labirinto, dove la porta d'entrata (non) è quella d'uscita Perché i lamenti non sveglieranno mai lazzaro, se a chiamarlo è la voce della madre, il luogo/logo dove il presente ri?diventa (la forma del) passato; e nemmeno il taumaturgo, nel cui linguaggio il passato ri?diventa (la forma del) presente: salvo a cancellare il silenzio quando lazzaro, come corpo (?non-corpo) era il tempo di quel silenzio, salvo a cancellarne nel concetto la memoria, metaforizzandola, memorizzandone l'avvenuta cancellazione.

La sua mano è un sistema cosmico di de/cifrazione.

Se il dopo è assolutamente originario rispetto a ciò che accade, il desiderio (la fisicità) che lo fa reale è rimozione istantanea del tempo lineare.

Forse qualcosa? deve accadere, o è già accaduto e non ne serbiamo traccia in una memoria, la cui quotidianità, interiorizzata, ne annulla il tempo di presenze, costringendoci a vivere come se.

Nulla di più arbitrario del supplemento patetico e di principio della fisicità,
eppure nulla di più necessario della mano che introduce nel catalogo dell’esistente (la città) il suo qui-da-sempre.
 
 

La sua mano è un'anticip?azione dell'utopia.

Che l'arte sia morta ieri, dopo Hegel o Marx, Nietzsche o Heidegger - e l'arte dovrebbe ancora errare verso il senso della sua morte - o che sia sempre vissuta sapendosi moribonda, come viene riconosciuto in silenzio nella città stessa che dichiarò l'ars perennis; che essa sia morta un giorno, nella storia o che sia sempre vissuta nel tentativo di aprire violentemente la città, per trovarvi la sua possibilità conto la non?arte (la città), contro il suo fondamento e il suo passato che si dà già come contemporaneo; che al di là di questa morte o di questa mortalità dell'arte, che è anche, e immediatamente, la morte della mano che l'ha prodotta, e forse anche grazie ad esse, il gesto estetico - poi/ etico - abbia un avvenire, o che come oggi si asserisce, sia ancora tutto di là da venire, a cominciare da quello che si riservava ancora nell'arte (nel corpo); o in modo ancora più strano, che l'avvenire stesso abbia in tal modo un avvenire, sono tutte interrogazioni alle quali l'arte (il corpo) non può dare una risposta. Sono per nascita, o almeno per questa volta, problemi che sono posti al corpo (l'arte) come problemi che esso non ri-conosce.

E' nelle forme della desublimazione, nell'insolubilità del conflitto tra attuale e possibile che 1'id?entità (sistema produttivo) può strutturarsi trasformando la sua mano in un fatto, nella proposizione che di essa la mia voce fornisce.

Parlare di una durata conquistata sulla mobilità, per definire il corpo come forma?spettacolo-merce, in cui la città, biffando il vissuto, fonda la sua generalità/genericità è parlare di un concretismo di operazioni ancora alle prese con gli oggetti e le trasformazioni di profitto che li investono, di un rapporto in piuttosto che di un rapporto con. Nel mio corpo é così realizzato un gioco translinguistico delle parti che mima il movimento attraverso cui la ragione (il mercato) verifica la sua possibilità di essere un (il), mondo.

Nel tempo della presenza, ciò che conta è solo l'esecuzione.

Il linguaggio realizza nella rappresentazione il permanere del s/oggetto saldato all'organizzazione del processo metaforico (economico) del senso, in cui la fisicità come puntualizzazione del tempo risulta un semplice fatto grammaticale, il margine dell'ipostasi idealista di mondo?storia.

Il corpo ri?vela la scena onirica come segmento del discorso.

La metafora (la città) esautora il limite nel tempo della fisicità, sopravvivendo ad essa.

Nella città la costante puntualità materiale del caso di?vaga a funzione conoscitiva, a pura modalità di una logica dell'opposizione, in cui la morte è la grandezza nulla che costituisce la coscienza.

II corpo è la eonfutazione dell'arte come rappresentazione.

La sua mano è assolutamente semplice.

Se essere?nella?città non introduce alla conoscenza, ma ad una tensione tra i piani dell'urbano e l'insieme dei rapporti che si sviluppano fra il mio corpo e quello dell'altro, per quanto inerte, e che producono materia organizzata (organizzabile), solo quando quest'ultima, oltre ad ogni possibile principio di funzionalità, si dà come senso, allora è p o e s i a, mutazione in atto.

I1 linguaggio, riducendo la fluttuazione del corpo nell'io, che è passibile della ripetizione (logica, arafica, verbale) lo rende corpo urbano, cioè s/oggetto di consumo.

I1 luogo/logo comune è una prospettiva clinico?oculistica: esso rende irriconoscibile l'istanza della sua mano.

Siamo sulle strade di un vissuto, lungo le quali il terrore urbano è il truccarsi del corpo nello spettacolo quotidiano, in cui non è più (ancora) possibile precisare da che parte siamo né procedere al di là del (plus) valore di coscienza.

I1 coincidere, qui ed ora, di bio?tecno?logia e bisogno, di mondo ideale e mondo reale, di profitto e produttività, affermato come prassi della ragione e ragione della prassi, sancisce l'assurdità del desiderio come desiderio dell'assurdità - di ciò che non è assolutamente.

Tutti i significati (la storia) della città gravitano nella preistoria del bisogno, che riconduce la fisicità al cibo (e al sesso come immagine equivalente), alla merce cui è in/differente il luogo/logo in cui avviene lo scambio come ricambio dell'identità somale.

I1 non capirci nulla é ridotto a dettaglio, a criterio particolare e occasionale.

Ciò che esiste solo come prodotto, l'id/entità, tende a porsi come soggetto storico dell'artificiale ?ovvero della scientificità e di una dialettica dei dati, che de?finisce la fisicità nell'intermittenza mito logica/morfica della merce, catturandola nella macchina e nel linguaggio da questa prodotta, il cui gradiente terapeutico si misura in un (non) vissuto, ri?con?dotto alla matrice garante dell'io, reale proprio nel momento in cui il corpo ne avverte i meccanismi di contraffazione che l'io attiva. Solo così l'ipotesi psicoanalitica può procedere alla riaffermazione dell'unità dell'esperienza, nella negazione del corpo attivata dalla macchina, il cui rapporto derivato con la morte sutura la lacerazione del vissuto, riconsegnandolo e riconsegnandogli (al)l'anonimità/anomìa.

La città (non) è l'inconscio.

I1 corpo (non) è capace di sottrarsi alla riproducibilità tecnica, alla povertà (economica) dell'inconscio (s)velato come macchina che ripete in esso il tempo lineare dai suoi pro cessi.

I1 linguaggio dell'identità si rende vissuto attraverso la ripetibilità simbolica, in cui l'io automatizzato impara a conoscersi come grado di conoscenza, produzione individuale di conoscenza, che nasconde il (proprio) limite nell'affermazione della (propria) socialità. Solo ciò rende reale la città come deposito latente/emergente della speme, in cui l'ideologia si ri?produce come discorso su?nella scena, in cui l'altro può essere presente solo a patto che si autoidentifichi, che renda visibile, attraverso il suo corpo ridotto a segnale, l'osmosi tra sistema e processo, tra pro dotto e consumo.

Ciò che non è possibile (}a fisicità) è già possibile. Di modo che, esaurite attraverso la citazione le modalità e la tipologia, con cui ciò è (stato) reale il cerchiò si chiude e la tautologia é perfetta.

Un corpo è ciò che io sento di (voler) toccare.

La sua mano, toccandomi, mi sottrae alla macchina, all'umano troppo umano da cui io?in quanto?corpo sono ridotto a puro piacere/consumo, alla caricatura della (mia) inte riorità.

Nella coazione a ripetere, nella proposizione idealista del nome?con?valore?di?divieto, il linguaggio risolve l'in/differenza (fisica) di classe nel sogno.

Anche la separazione dal corpo e nel corpo comporta passione, l'eccitazione di uno sguardo sociale che libera il venire a morte della solitudine nella solitudine: perché l'amor senza mutande non lo farem mai più, se anche 1'errore non sfugge al linguaggio, che ci indica il tragitto tra il prima e il dopo.

Ciò che esiste anche senza essere presente è la cosa che riduce nella rappresentazione del tempo l'opposizione di valore che essa produce e da cui è prodotta.

La sua mano è un'intuizione fisica.

Ciò che esiste (per me) è la sua mano come rifiuto definitivo dell'immaginario (e del discorso clinico?terapeutico-politico in cui si costituisce) e, nello stesso tempo, impronta cui è in/differente la conferma della voce che la trasforma in un processo ricognitivo, che è, immediatamente e sempre, un twiddling dell'interiorità, una manipolazione cosmetica che banalizza il con/tatto rendendolo interessante nella misura in cui lo pone costituzionalmente ambiguo, oggetto (pretesto) di analisi (e di linguaggio).

Non ostante ciò che pensiamo e diciamo, la sua mano, toccandomi, mi (le) dimostra che siamo differenti da ciò che pensiamo e diciamo.

Il clou dello spettacolo (non) è la morte.

Ciò che ri?mane della fisicità è il simulacro, che riafferma il limite bio/logico dell'identità.

Nel con/tatto delle mani la passione ri?emerge come salma di una specie estinta.

Non si sfugge alla banalità dell'inconscio: perché, in definitiva anche la faccia del dado è un linguaggio e rinvia ad un tavolo, in un processo circolare che si chiude nella trasgressione della trasgressione.

Si ricorre ad un'economia coattiva della ripetizione, mimando la sospensione mitica duna negazione di autorità e arbitrio (innominabile e dicibile), e rifiutando, nella de/signazione del reale ciò che non può essere misurato con il simile.

La s/centralità della passione si riappropria, sottraendola al lavoro (falsa coscienza) del quotidiano (la scienza) che la cifra come contro?discorso, dell'intuizione materiale della demenza.

Nel feticcio sessuale, l’id?entità ri?produœ il mio come garanzia simbolica della manipolabilità sociale del corpo.

Il linguaggio in cui la città si dic, supplendo al corpo, per quanto si sforzi e si sia sforzato di re?introdurre la violence defleurissante della fisicità nella grammatica, procedendo di volta in volta per fratture di ordine dimostrativo o allusivo, non si sottrae allo stallo della concettualità e delle sue imbastiture formali: attraverso il (mio) linguaggio parla la (mia) città.

Ciò che la sua mano sta cancellando è il mito umanistico (urbano) di tout est dans tout, la possibilità di poter usare ancora il linguaggio.

Il corpo è inaugurale: nel senso che è il dove (non) siamo, attraverso cui, rifiutando il consenso al referto psicoanalistico del collettivo, che è il simbolo di ogni meta? possibile, si rende in/differente all'opposizione di omogeneo e disperso, di ideale e terreno che inducono all'autobiografia e alla rappresentazione della propria interiorità.

La sua mano liquida la teoria sull'altro come degradazione del mio corpo che, sotto il suo con/tatto, sta mutando.

La fisicità diventa utopia con l'instaurare la defunzione segnica della s/langue commune e opponendosi al consenso (consumo), attraverso cui la città si offre come fenomeno/fonemano nel quale il dopo è già presente.

La sua mano è.la distanza dalla tautologia che io sono e, poiché ciò è assolutamente gratuito, non ammette sostituzioni, arché o telos.

L'utopia appartiene al corpo, cioé alla materia.

La fisicità come eros?ione, ricorso alla materia, saldatura tra mondo organico e inorganico, permea dal di dentro il dopo, ne fa un mio attributo, consentendomi di ri?trovare la sua mano come m a r g i n e della mia.

Dopo il dopo è dopo.


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