Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche

Nino Maiellaro: Poesie scelte
di Antonio Spagnuolo



Nino Majellaro, Poesie scelte
Ediz. Del Laboratorio, pagg. 208, L. 30.000

L’occhio interiore viene ferito e turbato quando il sopravvivere  cerca di riconoscere le tracce
del tempo, mutandosi esso stesso in ricordo.
Inconsapevolmente la successione riesce a dipingere le superfici della memoria e diviene immediatamente
tangibile in quello sguardo globale, che riesce a distinguere ciò che è appena scritto e ciò che la vita riordina
nella sua continua partenza.
Le sollecitazioni, le stridenti logiche della dinamica sociale,  le contrapposizioni nelle strutture della cultura,
a volte possono dare origine ad un fatalismo che nulla ha a che fare con la scrittura poetica, in quella
oscurità delle azioni quotidiane, sempre eguali e pur sempre accettate come necessaria prosecuzione del viaggio. Non così quando lo stato delle cose cerca di incidere nel senso della virtualità, e giustifichi l’effetto
del segno rimandando a quella che è la dimensione propria della poesia nelle sue modificazioni e nei suoi rischi
di consistenza.

“Di mattina c’è un profumo di caffè
nel bar assonnato da dove guardo
la finestra chiusa della mia stanza.
   Di notte
sogno la prateria degli impiccati e una baracca
sul limite di brume oltre il quale odo
gli invisibili speroni che percorrono
la terra dei morti. Qui tra la gente
la vita ha ancora le sue ore e la giovinezza
continua nella memoria, qui le sorti
del mondo non sono appese al filo
di una spaventata identità…” (pag.172)

La morbida luminosità che traspare tra i versi pone il lettore in quella sottile tensione di attesa e di stupore
propria della sorpresa mattutina, nella quale o per la quale il pensiero si adagia alle visioni  irraggiungibili
ed affamate di libertà, anche se il poeta ben sottolinea le due speranze descritte: sogno è la visione
della prateria dei morti, realtà la gente che lo circonda, con la sua ingenuità lontana un miglio dalla paura della vecchiezza.
Un’ ulteriore possibilità di entrare nel cosmo della scrittura del porre altrove per riuscire a trasformare
la pagina in coscienza narrativa offrono i versi:

“Se abbasso l’inferriata tra i muri e gli steli
ogni cosa sbianca,
   come un’altalena in cielo
sparano i fiori dei morti semi
   nella vallata.
E dalla cucina allo sfrigolio dell’olio
Risponde la memoria di ciò che è chiuso fuori.
Sono passate le vele arrivate in un luogo
della terra, tra miele e occhi scuoto
il caldo della tazza.
   C’è chi allunga il passo
e chi lo trattiene, sulla collina chi va
e chi viene passa senza essere visto….” (pag.116)

Il tentativo è quello del cortocircuito, che avviene nell’esperienza della plasticità del momento vissuto
ed elaborato dal nostro inconscio, non tanto qui come liberazione da, bensì come rielaborazione di.
Lo spazio-tempo fissa la sua lunghezza tra gli eventi che coinvolgono i nostri pensieri ed il bagaglio
che viene stipato nella memoria, ove le misure vengono naturalmente forgiate  dal fiato psichico
il cui ritmo è nella realtà pensata/parlata.
“La ricchezza, la verità nascosta all’interno delle cose visibili, è ciò che emerge e si accampa attraverso
le parole sulla pagina, -scrive Vincenzo Guarracino nella prefazione –l’evento del vivere stesso come deposito magmatico di scrittura col suo carico di realtà, sofferenza e insensatezza: è la desolazione di un altro ritorno
diligentemente annotata dallo scriba in conclusione dei “viaggi di notte” come se fosse, gesto tra tanti gesti
consueti e certo anche più banali, quello più vero ed essenziale della vita, l’atto destinato e deputato
condensare e consacrare l’esistenza oltre il “vuoto da riempire”…”.
 
“Nel silenzio della memoria la parola,
come rodio di topo, fruscia, zampetta,
striscia da un capo all’altro dello scenario:
il teatro è vuoto.
  Decifrando il sillabario
l’esistenza ha percorso anche il futuro;
nulla è mutato, la porta geme, le foglie
s’accartocciano sul pavimento, il campanile
batte le ore: il testamento è ancora da segnare…” (pag.189)

I piani varianti sono riusciti a mostrare l’annullamento dello spettacolo (il teatro è vuoto) che giorno
dopo giorno recitiamo ingloriosamente  per gli altri, uno spettacolo fatto dalle nostre mille piccole azioni
cucite oltre il memorabile, per la esasperazione del vissuto, nel mentre la memoria accantona nei suoi
meandri le parole, il logos, l’unica realtà che sopravvive, percorrendo anche il futuro, prima ancora
di raggiungerlo.
Le dimensioni poetiche di Nino Majellaro  hanno una coerenza senza deroghe, un credo che si sostiene
nell’equilibrio dei registri svincolati dall’affabulazione, e ben contemplati nella fisionomia definita.


Indice recensioni e note critiche
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Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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