Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche

Appunti che sono variazioni. Per Giuliano Mesa
di Massimo Sannelli


1. “Ogni perfezione va distrutta” (Improvviso e dopo, Anterem, Verona 1997).
Ma i nuovi testi (Quattro quaderni, Zona, Lavagna 2000) hanno anche grandi fasi di perfezione:
la costruzione del libro come struttura di strutture (quattro quaderni annuali, trasformati in quattro
quaderni non cronologici, che producono i “quartetti”); la volontà metrica arcaica, con sequenze
di piedi (ad esempio, i giambi e i trochei, con un dattilo, dell’inizio apparentemente semplice
del Quarto passaggio: “e dopo questo suono, dopo, / dopo torna // come se nulla fosse, suona,/ suona
ancora / [e fa le bizze, scalcia, / muove l’aria]). Forse la poesia segue il mondo “pieno di occhi” (p. 26),
con inserti di prosa o quasi. La parola laica enuncia e crea la musica e la simmetria: il “modo
di comprendere” dell’inizio (p. 13) prepara quello del Passaggio di Santiago (p. 25 e poi a p. 26:
“se c’è è come se non ci fosse / modo di comprendere. / anche non comprendendo, vedete, / non c’è
modo di accettare”); la prima parola del libro rima con l’ultima (“questa”: “resta”). Ogni simmetria è
(anche) ricerca di “perfezione”.

2. La forma-libro ha accolto la nostra frammentazione: o quello che l’autore decide di chiamare

“frammento”. Questo anche quando la nuova scrittura di Mesa vuole essere fortemente auto-riduttiva
(versi sempre più brevi; anche versi isolati: “tutto che se ne va verso quel buio” [IV.6]; semplificazione
del vocabolario, incontro ad un parlato ritmico: “e poi? poi che faremo? faremo tardi?” [III.1], “[un
suono / questo dopo // questo / e questo basta]” [IV.1]; “ridici / resta fermo, / ecco che arriva
questo, / tempo, / dentro e fuori” [IV.7]). Lo stesso effetto in uno spazio di critica-poesia volutamente
aspro, contemporaneo al periodo dei Quaderni (cfr. Parole e parentesi, comunicando, in “Versodove”
9-10 [1998]: “Allora? Tacciamo? Se cominciassimo a tacere? Ma se tacessimo chi ascolterebbe
il nostro silenzio? Se non parliamo le parole, allora facciamo il fare? Parlare è fare? Di quale fare stiamo
parlando? Che cosa fa la poesia? Fa? Vuole fare?”).

3. Riducendo, cade la ricchezza. Il non-finito (l’apparenza del non-finito) porta al non-perfetto

l’apparenza del non-perfetto), quindi ad un’auto-anarchia: ma ora la riduzione è carica di un altro sapere,
che è tecnico (cfr. il punto 1): a suo modo, una forma di ricchezza, virtuosa e sottile. Tutto questo è già
nel rapporto tra “improvviso” e costruzione di “dopo” (vera “formattazione” dei fragmenta, incontro
ad un progetto di libro, che è il Senso del percorso di vita e di ricerca; l’improvviso – “cuore” e “voce” –
usciva dal corpo e in qualche modo rispecchiava ancóra il corpo): il libro e l’articolazione in Quaderni
e Quartetti rigorosi sono “struttura” (“un arbitrio, una hybris, una volontà, nefasta, di monumento / un’epidermide artificiale su un corpo scorticato”): l’improvviso è una forma ibrida, a metà tra la non-forma
e la fissità. Anche “l’organismo” vivente “si trova a metà strada fra qualcosa di informe e qualcosa di intero
ed esteticamente compiuto. Questo suo essere diviso a metà deriva dal fatto che, sebbene noi ce lo
figuriamo staccato dall’ambiente (nella misura in cui percepiamo una persona dal punto di vista estetico),
in realtà sappiamo che non può essere separato [da esso fino in fondo]”; soprattutto, “attraverso
le sue funzioni un organismo” – ma anche il testo isolato e “improvviso” – “si estende al di là dei suoi
stessi limiti” (Pavel Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, Adelphi, Milano 1995, p. 255: 5 dicembre 1923)
e forma, in quanto testo, “quaderno”, “quartetto” e “libro”. Il pezzo non è pensato ma esiste
con caratteristiche già formali: “[ombra, che è un’ombra, / che la forma si forma / come ombra di sé]” [II.11].
Nel singolo testo, l’impoverimento è contrastato dalla ricchezza della prosodia; nell’insieme, la povertà
di ciò che vuole essere immediato (non meditato, non forte, non risolutivo) è contraddetta dalla meticolosità, matematica e musicale. Cfr. anche la Nota ai testi alla fine di Improvviso e dopo.

4. Il tempo dei singoli improvvisi è separato e misurato (“le date, i luoghi, le dediche” in appendice

e non in calce ai testi; come la datazione a parte delle poesie di Sanguineti); il tempo del libro formato
è unico e posteriore allo sforzo di fermare i tempi e disperdere sé negli “improvvisi”.

5. Esiste una sensibilità che scioglie il lavoro già fatto per rispettare la vita in sé e la propria (parziale,

ma non banale) vita nuova di ora (vita diversa). Chi ha potuto leggere la prima forma, inedita, dei Quattro quaderni insieme alla seconda, che è stampata, lo può capire. Il lettore pensa: il rapporto arte-vita è
immaginario e rituale: corrosivo in quanto immaginario e rituale (cfr. il timore dell’amico di Usher, narratore:
“I could not help thinking of the wild ritual of this work, and of its probable influence upon the hypochondriac”; nella traduzione di Baudelaire: “Je songeais malgré moi à l’étrange rituel contenu dans ce livre et à son
influence probable sur l’hypocondriaque”). In quanto immaginario e rituale, non esiste veramente
(cfr. il punto 11, sotto); ma l’energia interiore che è in gioco lo rende ‘reale’, umanamente e mentalmente:
lo stesso sforzo emotivo fa immaginare un “dio” e – dopo averlo immaginato – lo fa amare, in quanto vero
e vivo: in questo caso lo sforzo del cuore tende ad una Persona – Dio – e non ad una Cosa, che è il “testo”
e il “libro”).

6. In alcuni testi il nero e la fine si sono incarnati in immagini pesanti, anche di horror (cfr. le varie mutilazioni

e parcellizzazioni del corpo in Improvviso e dopo; ma la ‘bruttezza’ viene salvata dalla sua organizzazione immediata in un progetto da realizzare: cfr. – ad esempio, nella loro esagerata bruttezza – le Nove macchine morte di i loro scritti, Quasar, Roma 1992; ma nello stesso libro c’è almeno una parcellizzazione con ‘grazia’,
prima di tutto ritmica: “non puoi. E non dici, come si aprono gli occhi, / e le mani, come si muovono
lente, / le unghie, come iscuriscono, premendo le tempi, / gli occhi, come vedono, le pietre striate
di rosso, / e in alto, che scorrono vento e salsedine, / che il guscio degli occhi, un feltro…”; cfr. anche
il pensiero di Mesa su Elisa Biagini, in “Versodove”, 11). Allo stesso modo – in un altro spazio – si legge:
“questo blaterare semietilico, in una notte nubìfraga, in un ennesimo autunno di silenzio, fra innumerevoli
vite che muoiono anche di silenzio, poiché nessuno che dice le ascolta, tutti presi a comunicare la propria
identità comunicazionale…” (Parole e parentesi, comunicando: qui – forse – la debolezza della visione
è nel montaggio brutale del tragico sul tragico, senza mediazione e senza soluzione. Né la disarmonia può
– qui – diventare la “grazia incondita” che Testori ha amato in Bacon. Il problema – e la differenza –
si gioca intorno a un lavoro del ‘bello’ stile). Come antidoto al buio, esiste l’ultima pagina di Simile e
dissimile di Šklovskij (evocazione di Venezia e dell’áncora; di Leningrado e di Manuzio): non esiste fine.
Il libro sarà “gaio” e non “triste”.

7. Il corpo è prâgma: la scrittura (la poesia) è “evocazione” (Pasolini, Empirismo eretico).

Il corpo-prâgma è vero. L’anima-prâgma è vera. Il corpo scritto è scrittura: arte. L’anima scritta è scrittura.

8. Parlare del corpo non è automaticamente materialistico, ‘comunista’, ecc. Intorno al “materiale”

fioriscono – letteralmente, fioriscono – la novità e il miracolo.

9. La lucidità permette l’abbandono totale.

3-19 luglio 2000


Indice recensioni e note critiche
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Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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