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Poetry Wave

Recensioni e note critiche

Cesare Viviani: Il mondo non è uno spettacolo
di Elio Grasso


Cesare Viviani, Il mondo non è uno spettacolo, Il Saggiatore 1998, pp. 158, L. 18.000

Il 19 aprile 1998 ero nella comunità monastica di Bose, a Magnano, vicino alle Alpi, vicinissimo al cuore ultimo delle montagne, dove persino la mente più ingrata si addolcisce, passando dalla sterile curiosità a un tempo di persuasione. Per la verità non ero solo: in quel luogo si era deciso di consacrare una giornata alla memoria di Cristina Campo. E allora grandi amici (a cominciare dall' "amico lontano" Alessandro Spina, sorridente e silenzioso) e grandi editori si sono incontrati, hanno parlato agli spettatori, hanno disteso sui prati e fra le dimore della comunità il pensiero e le parole di questa inclassificabile scrittrice. Fra i molti visitatori, occhio tranquillo ma passo inquieto, Cesare Viviani. Scambio d'impressioni, presentazione del priore Enzo Bianchi, poche ma comunicative parole. Verso sera, dopo una giornata luminosa e sonora (bisognerà ritornare col discorso sul canto gregoriano e sull'eccitazione degli animi che esso provoca), lasciandomi il Monte Rosa alle spalle, mi sono sorpreso a pensare che lo spettacolo a cui avevo assistito non apparteneva al mondo comune, pur essendo parte di questo mondo. Il lunedì, sorpresa nelle sorprese, trovo in libreria il nuovo lavoro di Viviani: non versi (il suo fondamentale Una comunità degli animi ha appena un anno di vita), ma riflessioni, appunti, aforismi di poetica e di etica. Il mondo non è uno spettacolo. Bel colpo alla mia già traballante situazione intellettuale! Una percezione ben più che attenta interviene - facendosi ascoltare per simpatia, tentando di persuadere - su scrittura e abitudini di vita dei poeti, su linguaggio poetico e volontà. Si riconosce, in queste pagine, il tentativo di rendere oggettivo l'impulso del dire poetico, dell'uomo che si fa esploratore dei propri e altrui segni, senza per questo imporre un metodo o una visione essenziale ma personale. Un tentativo, mi sembra, pienamente riuscito quando Viviani svolta la sua ricerca verso il Novecento di Verlaine, Eliot e Sereni, con i loro strappi frementi e moderni sul tempo, con "l'irruzione della tragedia nell'attività". Il dopo e le illusioni occupano tutto il pensiero, e quando tutti cercano affannosamente qualcosa da affiancare al già deposto, l'uomo saggio si avvicina al fiume, e lì pesca. La struttura tiepida della terra, centro sessuale del nostro universo, diventa il simbolo stesso della scrittura: per il poeta Viviani, ma credo per ogni poeta, "la scrittura è scavare, entrare vivi nel sottosuolo". Questo è un libro policentrico, diversi i nodi da cui si può partire per un viaggio formativo: però mi sembrano di grande forza etica quelle pagine che posano l'accento sulla condizione del letterato bramoso di potere, incapace di lasciarsi immergere nell'incanto della storia altrui, se non per appassionarsi a piccole fortune come gli atti di presenza, le recensioni. Ecco che far coincidere biografia e opera diventa pura violenza allo spirito, immorale accanimento sui fatti e contro i battiti d'ali delle parole. E come tralasciare pensieri come questo: "La poesia vale solo per i credenti: per coloro che credono all'esistenza dell'invisibile. Per questo la più parte non ha relazioni con essa, perché non crede all'esistenza di Dio." E poi continuando a ragionare sulla scarsa afferrabilità (per fortuna, aggiungo io) del mondo in cui è sospesa la nostra esperienza. La poesia appare così in tutta la sua chiarezza: energia miracolosa, capace di trasmettere le conoscenze nel nostro tempo, tanto complesso se lo paragoniamo, per un attimo, all'uniformità per noi disarmante del puntino da cui ha avuto origine.


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Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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