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Poetry Wave

Recensioni e note critiche

Antonio Facchin: La fanciulla di Delfi
di Raffaele Piazza


Antonio Facchin, La fanciulla di Delfi, Antonio Facchin Editore
Altivole (TV) Roma 2000, pag. 60, lire 20000

 Il poeta (e anche finissimo pittore), Antonio Facchin, già vincitore del Premio Eugenio Montale
nel 1986 e già direttore delle Edizioni Amadeus, che hanno in catalogo versificatori del calibro
di Bigongiari, Ramat, Perilli, Scalise, e che hanno riportato la vittoria assoluta a premi come
il Montale, il Gatto, il Gozzano e che sono caratterizzate dall'eleganza della veste tipografica
dei volumi, sugella la sua validissima e importante, originale e sublime produzione poetica,
con questo splendido libro intitolato La fanciulla di Delfi, nel quale il suo dettato, essenzialmente
e apparentemente elementare, nella sua precisione, leggerezza e nello stesso tempo originalità,
tocca vette altissime.
 Dicevamo originalità, impronta personale: in questo senso Facchin è veramente autentico poeta,
quando è vero che la poesia alta è tale quando il suo autore raggiunge questo traguardo, l'inconfondibilità
dello stile e l'icasticità del verso, mista a quella dolcezza, della quale ha parlato Geno Pampaloni
a partire dal suo "Il frutto che domina", che, come la produzione successiva, fino a questo ultimo testo,
è sempre tesa nella sua tensione verso la fusione con la natura, attraverso due costanti che ne sono
espressione: la figura femminile e l'arte. A questo discorso si connette la suddetta dolcezza di Facchin,
che non si nega all'onesto coraggio dell'oltranza, al brivido degli assoluti.
 Ed è proprio questa ricerca di assoluto, di una grecità attica, quella del tempio agli dei che,
per una maggiore fusione di fisicità e spiritualità dell'uomo con la natura, veniva costruito in collina,
il dato saliente di questa raccolta, organica, che nel suo inno alla vita, senza la minima traccia di retorica,
si può considerare un poemetto dedicato alla sua donna, nel quale l'ansia posmoderna della globalizzazione,
della velocità trova requie nel rifugio nel mito, si direbbe meglio nella poesia del mito, che si riaggancia
alla realtà, ad una sua forma dissetante, se è vero che Maser, terra natale del poeta, è il luogo di partenza
con i suoi colli, le campagne, amate anche dal Facchin pittore, di un virtuale viaggio verso Delfi, Maser
della quale Facchin riesce a cogliere il minimo mutamento, ogni visione o sapore o sensazione, per compiere
dal suo Veneto, dicevamo, un viaggio metaforico, sensuale e mistico fino alla terra degli dei.
Come negli altri libri di Facchin, qui la bellezza si rinnova e si celebra nell'abbandono al cosmico abbraccio
(come di lui  dice Paolo Lagazzi), in quello sciogliersi nel corpo mistico del mondo con la resa delle difese
strazianti della mente fino a consumarsi, a bruciare nella luce, a diventare parte della natura, in un anelito
ineffabile che precede il dirsi di questa poesia nel non detto, per poi manifestarsi nella fonte della parola,
dato di una ricerca umana e poetica.
 Leggiamo nella nota che Facchin ha scritto al termine della sua opera (programmatica nei suoiintenti):
-' Questo poemetto è ispirato a quella che era la figura misteriosa, comparsa in una città dove aleggiavano
i segnali evanescenti degli dei. Un affresco, un repertorio cromatico, che mi attendeva forse da millenni...'.
Il poeta è quindi consapevole della fugacità del tempo, dei poeti che l'hanno preceduto, dell'Assoluto
nella vita e nella Bellezza:'- Una fanciulla ammirava il mare in solitudine, quando apparve un Nimbo
e le chiese cosa aspettava; lei rispose con dei gesti che lambivano una luce misteriosa'-.
Natura in senso  vlassico, dunque, ma qui anche romantico, mistero della donna e del tempo:
-' Lei aveva sentito la voce/ della verità che avveniva./ Quante giornate da sognare/ la luce nascosta!/ Quanti desieri che incombevano/ nel luogo prestabilito!/ I segnali nel mio libro,/ nella sua infinita voce; i suoi ritmi che sono nati/ in me ora vivono/ e fanno vivere./ Ora accosta il tuo labbro, sul mio, ancestrale/ distesa dell'antico sogno./ Gli avi hanno pregato/ e hanno voluto la nascita/ e il compimento./ Tutto sia dato a te, dunque,/ sposa della creazione/.
 Con i suoi versi brevi, tersi, luminosi, nei quali le parole si agglutinano le une alle altre con rara maestria,
in una poetica dove il quotidiano è assente, il poeta gioca la sua partita senza incorrere nel rischio
di un cadere nel vago o nell'impressionistico. L'esito è notevole nel cantare la sua donna:
-' Mia Regina, padrona assoluta/ del mio corpo e del mio spirito/.../Così il menestrello è colmo/ del tuo Amore/ e canterà in ogni luogo/ vicino a te eternamente sospeso/ nell'aria delle tue forme, nella penombra di ogni tuo gesto, nell'intimità della tua bocca./ Mi apro a te,/ servo del tuo amore/./ Per sempre/ il tuo amato/ Antonio./
Qui si giocano accenti di lirica che potremmo dire trobadorica, di un'età romanza intrisa di una vera e propria venerazione per la Creatura amata, imprenscindibile e salvifica; da notare però che la donna non è una figura
da Dolce Stil Novo o una Beatrice o una Laura: nella stessa idealizzazione dell'amore, non è questo il caso
di paradosso trobadorico legato solo a coordinate di pensiero e di venerazione,che non hanno riscontro
nella fisicità della realtà, a prescindere dal fatto che l'amata sia in vita o in morte: qui il rapporto amoroso
è vero, tangibile e, tornando al discorso sull'antichità della Grecia attica, si può sicuramente dire che questa
Regina è una musa, figura ispiratrice dalla cui contemplazione, fuoco carnale e spirituale, vengono fuori i versi.


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Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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