Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche

Wittgenstein e l’epitelioma di Pirandello
di Corrado Ruggiero



"Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili do-mande scientifiche hanno avuto riposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati. Certo allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta".

  Se non sapessimo che questa frase è letteralmente spiantata dal Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein, se la leggessimo appena prima di quest'altra:

"E mi faccia un piacere, domattina, quando arriverà. Mi figu-ro che il paesello disterà un poco dalla stazione. All'alba, lei può fare la strada a piedi, il primo cespuglietto d'erba su la proda. Ne conti i fili per me. Quanti fili saranno, tanti giorni ancora io vivrò... Ma lo scelga bello grosso, mi raccomando…”,

spiantata da L'uomo dal fiore in bocca di Luigi Pirandello, potremmo pen-sare che appartengano, tutt'e due, allo stesso autore. Anzi che apparten-gano, in più, allo stesso testo: con la prima, la frase di Wittgenstein, a far da premessa a quella con cui Pirandello chiude il suo atto unico. Ancora meglio: potremmo fare un passo avanti e essere indotti nella ten-tazione di immaginare che "quel" Wittgenstein stia a far da chiave a tut-to L'uomo dal fiore in bocca.

Non si tratta, questo puzzle, di una provocazione convocata qui a scandalizzare il lettore per catturarne, con qualche gioco di prestigio, l'attenzione. In verità, una lettura di L'uomo dal fiore in bocca che voglia alzare gli occhi appena un po' oltre l'orizzonte del proprio naso dovrebbe iniziare proprio nel nome del Ludwig Wittgenstein del Tractatus logico-philosophicus. Basta scorrere il calendario perché si trovino già nello scorrere delle date gli elementi che dovrebbero mettere in allarme il lettore accorto.

Il Tractatus venne completato nell'agosto 1918. Pubblicato una prima volta nel 1921 con il titolo Logisch-philosophische Abhandlung, fu ri-pubblicato l'anno successivo con alcune varianti. Sono proprio gli stes-si anni in cui entra in scena il teatro di Pirandello: il teatro maggio-re e più scandaloso, quello di cui L'uomo dal fiore in bocca riassume, nel giro del suo unico atto, il grumo profondo: l'impossibilità radicale di significanti/significati stabili su cui si possa fondare la "certez-za" del mondo e, in parallelo, la possibilità di una comunicazione sot-tratta alla precarietà del nostro essere precari in mondo a sua volta precario.
Articolato in aforismi densi e intensi su temi fra i più ardui della filosofia e della logica, il Tractatus -nel 1918, e oggi ancora- non era un libro facile né per contenuto, né per forma. Tuttavia ebbe un succes-so enorme: tanto che più d'una sua proposizione è passata in detto di senso comune. Con una riflessione di contorno da non buttar via: perché quando un libro, le sue proposizioni passano nel linguaggio corrente co-me cose che ognuno ha pensato o potrebbe aver pensato vuol dire che esse interpretano perfettamente il senso comune, ciò che ciascuno sente oscu-ramente nel profondo ma non é, poi, capace di dire a chiare lettere: con la condensata limpidezza di cui il Tractatus diede, appunto, prova.

La "Prefazione dell'autore" non ha un inizio rassicurante. Desta turbamenti in chi senta, anche senza avvertirla, la pena del vivere in un mondo dal senso e dal fine estremamente precarî: "Questo libro, for-se, comprenderà solo colui che ha già pensato i pensieri ivi espressi - o, almeno, pensieri simili... Conseguirebbe il suo fine se piacesse ad uno che lo legga e lo comprenda". E, anche costui, "forse" lo comprende-rà! Il lettore filisteo, "avventore pacifico" di quel caffé che chiamia-mo vivere, poco attento alle crepe che gli si aprono dinanzi (quel "for-se" che accompagna e limita "comprenderà"; quella condizione dell'aver già pensato gli stessi pensieri o -"almeno"- pensieri simili per poterlo comprendere!) passa e va avanti. E, forse, è anche da comprendere e da compatire chi vive così; è anche giusto che si chiudano gli occhi dinan-zi alle angosce: se si vuol vivere, da filisteo almeno: perché, forse -ed è questo il vero dramma-, non ci è concessa altra vita. D'altro canto già Marcel Proust aveva scritto che " […] ogni lettore legge solo ciò che è già dentro di lui. Un libro è solo una sorta di strumento ottico offerto dallo scrittore perché il lettore scopra in sé ciò che non a-vrebbe trovato senza l'aiuto del libro." Un Proust replicato di recente, da altro versante e con altra prospettiva, dal cibernetico Marvin Minsky: "[…] in realtà i narratori impiegano frasi che attivano grandi reti di ipotesi già presenti nella mente dei lettori."
Dunque, per questo lato, niente di scandaloso. L'impegno di Wittgen-stein è solo nel "fissare in modo limpido e univoco l'uso di parole come mondo, accadere, fatto, stato di cose, cosa, oggetto. Parole comuni usa-te di solito in modo piuttosto vago e oscillante per esprimere un certo contenuto, sono usate per esprimere lo stesso contenuto, in modo preci-so, rigido: e diventano così ferrei binari su cui il pensiero, accettato un certo contenuto come ovvia premessa, dove scorrere ineluttabilmente" .

Percorriamo l'esordio di Wittgenstein:

 1            Il mondo è tutto ciò che accade.
 1.1        Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose.

 1.13      I fatti nello spazio logico sono il mondo.
 1.2        Il mondo si divide in fatti.

  2          Ciò che accade, il fatto, é il sussistere d'uno stato di co se.
  2.01    Lo stato di cose é un nesso di oggetti. (Enti, cose.)
 
  2.12    Nella logica nulla è accidentale. Se la cosa può occorrer
              nello stato di cose, la possibilità dello stato di cose dev'
              esser già pregiudicata nella cosa.

Se il mondo sono i fatti e non le cose, vuol dire che esso è affida-to alla precarietà del divenire e non alla stabilità dell’essere. Il mondo –perciò- é tutto ciò che accade, si muove, diviene. Esso é la to-talità dei fatti, ovvero degli accadimenti in cui le cose sono coinvol-te, e si divide in fatti. La precarietà del divenire genera angoscia laddove la stabilità dell’essere genererebbe sicurezza, metterebbe tra parentesi l’ansia che ci prende di fronte al divenire delle cose. “Gene-rerebbe”, “metterebbe” perché –a questo punto vale la pena dare un anti-cipo delle conclusioni- la stabilità è un’illusione. Reale è la preca-rietà dei fatti ovvero del mondo e, perciò, dei suoi significa-ti/significanti.
I fatti che costituiscono il mondo costituiscono un mondo, appunto, perché si distribuiscono secondo combinazioni organicamente strutturate e necessarie ovvero in catene ricorsive orizzontali e verticali. Tali combinazioni o catene sono intrinseche alle cose stesse e ne costitui-scono la logica: la quale –pertanto- è pregiudicata nelle cose stesse e non è accidentale.
La saldezza del mondo non potrebbe essere più salda.

Proseguiamo:

2.1  Noi ci facciamo immagini dei fatti

2.12 L'immagine è un modello della realtà

2.13 Agli oggetti corrispondono nell'immagine gli elementi dell'immagine

e, cioè

2.131 Gli elementi dell'immagine sono rappresentanti degli oggetti nell'immagine

2.141 L'immagine è un fatto.

I fatti entrano nella nostra mente sotto forma di immagini. La no-stra mente è iconica. L’immagine dei fatti che ci formiamo nella mente costituisce, insieme, un modello della realtà (nel senso che le dà un modello e la modella) e nel senso che, dalla realtà, prende modello e che la realtà le dà il modello. L’immagine, se il mondo non è altro che l’insieme dei fatti che lo costituiscono, non può essere costituita al-tro che dai fatti. Ma l'immagine-fatto è un fatto di natura e, almeno in qualcosa, deve essere identico al raffigurato. Cioè:

2.161    In immagine e raffigurato qualcosa deve essere identico,
             affinché quella possa essere un'immagine di questo
 
per continuare, poi implacabilmente (il discorso di Wittgenstein procede con logica implacabile) con:

    2.17 Ciò che l'immagine deve avere in comune con la realtà, per
             poterla raffigurare - correttamente o falsamente - nel proprio
             modo, è la forma di raffigurazione propria dell'immagine

ossia che la "forma rappresentativa" della realtà, Form der Abbildung, deve essere costituita in modo tale che "gli elementi costitutivi della rappresentazione stiano tra loro nella stessa relazione (ossia abbiano la stessa "struttura") in cui stanno tra loro gli oggetti del fatto rap-presentato" .
Tutto chiaro, chiaro com'è chiaro il più comune "senso comune". Con un’avvertenza. Wittgenstein mette l'accento sulla necessità che tra la realtà e la sua immagine vi deve essere in comune la “struttura” ovvero che tra la “forma di raffigurazione" della realtà e la realtà stessa vi devono essere corrispondenze topologicamente profonde e, non necessaria-mente, espressivamente omologhe: per cui una <rappresentazione> non è necessario che sia iconicamente fedele al fatto che rappresenta. La "forma rappresentativa" non si risolve in un’espressione iconicamente immediata e può benissimo appartenere a una proposizione del linguaggio verbale o a uno spartito musicale. Il che vuol dire che se la "proposi-zione è un'immagine della realtà", essa lo è in quanto:

4.01 la proposizione è un modello della realtà quale noi la  pensiamo.

Ovvero, meglio ancora:

4.011 A prima vista la proposizione -quale, ad esempio, è stampata
      sulla carta- non sembra sia un'immagine della realtà della
      quale tratta. Ma neppure la notazione musicale, a prima vista,
      sembra essere un'immagine della musica, né la nostra grafia
      fonetica (l'alfabeto) sembra un'immagine dei fenomeni del
      nostro linguaggio.

Eppure questi segni (quali che siano) costituiscono immagini, anche nel senso consueto di questo termine, di ciò che rappresentano.
Se "noi usiamo il segno sensibile (fonema o grafema etc) della pro-posizione quale proiezione della situazione possibile" (3.11) e "il me-todo di proiezione è il pensare il senso della proposizione" (3.11), e se "nella proposizione il pensiero può essere espresso così che agli og-getti del pensiero corrispondano elementi del segno proposizionale" (3.2), allora i "segni semplici" che utilizziamo nelle proposizioni sono quelli che chiamiamo "nomi" (2.202), "il nome significa l'oggetto" e "l'oggetto è il suo significato" (3.203). E ancora: se ogni cosa non può essere pensata separata da tutte le altre cose con cui è collegata per costituire la struttura della situazione data, allo stesso modo -di con-seguenza- un nome può avere un significato solo se lo pensiamo legato in una struttura con altri nomi in una frase o proposizione: "Solo la pro-posizione ha senso; solo nella connessione della proposizione un nome ha significato (3.3)".
Il mondo che, a questo punto, viene fuori non è altro che il mondo così quale ognuno di noi, nella nostra condizione di pacifici avventori di quel caffè aperto giorno e notte che chiamiamo vita, se lo è costrui-to e nel quale vive. È il mondo dei soggetti che, persone animali o co-se, fanno l'azione; dei verbi che indicano quest'azione; dei complementi a cui quest'azione, in un modo o nell'altro, si rivolge (a partire dal complemento oggetto che quest'azione patisce) o di cui si serve per por-tare a termine l’azione. Il mondo è un mondo in cui i fatti corrispondo-no alle parole e in cui le parole corrispondono alle cose. Un mondo, dunque, solido. Senza crepe: come le mura di Micene. “Quel che ci tran-quillizza è la successione semplice, il ridurre a una dimensione, come direbbe un matematico, l’opprimente varietà della vita; infilare un fi-lo, quel famoso filo del racconto di cui è fatto il filo della vita, at-traverso tutto ciò che è avvenuto nel tempo e nello spazio! Beato colui che può dire: “allorché”, “prima che” e “dopo che”!… Da questo il roman-zo ha tratto artisticamente vantaggio… Nella relazione fondamentale con se stessi, quasi tutti gli uomini sono dei narratori. Non amano la liri-ca, o solo di quando in quando, e se anche nel filo della vita si annoda qualche “perché” o “affinché”, essi esecrano ogni riflessione che vada più in là: a loro piace la serie ordinata dei fatti perché somiglia a una necessità, e grazie all’impressione che la vita abbia un “corso” si sentono protetti in mezzo al caos” . Un mondo solido, dunque, desideria-mo. Inattaccabile: se potessimo fermarci a considerarne solo l’aspetto esterno. Ma è un mondo che si sgretola non appena -insoddisfatti- cer-chiamo di saperne qualcos'altro. Cosa si nasconde dietro l’apparenza. Non appena lo sottoponiamo alla curiosità, ingenua e insidiosissima, dell'ulteriore –e fondamentale- domanda: come si fa a capire che cosa significa una parola?

Il Tractatus è una macchina che macina buon senso comune. Astutamen-te, maliziosamente.

3.263 I significati di segni primitivi possono essere spiegati
      mediante illustrazioni. Illustrazioni sono proposizioni che
      contengono i segni primitivi. Esse dunque possono essere
      comprese solo se sono già noti i significati di questi segni.

Detto in parole povere, il significato di una parola consiste nel-l'indicare con parole più semplici la cosa che essa indica. La catena, però, non si interrompe perché –a questo punto- bisognerà spiegare il significato di ognuna delle parole che concorrono a fondare il signifi-cato della parola da cui siamo partiti. Ma per spiegare il signifìcato di ognuna delle parole di questa ulteriore ricerca bisognerà procedere ad altra ulteriore ricerca del significato delle parole, ancora più sem-plici, che fondavano il significato della parola che costituiva l’oggetto della ricerca di secondo livello, per dir così. Questo proces-so, di esplorazione in esplorazione, porta a parole sempre più semplici che indicano cose molto semplici. Per indicare il significato di queste "parole molto semplici" si illustrerà il rapporto tra queste parole e gli oggetti che esse indicano. Questo rapporto viene indicato tramite delle frasi e le frasi vengono capite se si spiegherà il significato di ogni singola parola. Come si vede il circuito diventa una perversa spi-rale che si avvita all'infinito su sé stessa: noi capiamo le cose che abbiamo già capito per cui una cappa di silenzio angoscioso cala sul mondo che sembrava della perfetta comunicazione, della più trasparente evidenza. Possiamo dire solo le parole che abbiamo già capito, leggere i libri che abbiamo già letto, pensare i pensieri che abbiamo già pensato. Il Tractatus torna, a questo punto, al punto di partenza e il cerchio si chiude ("Questo libro, forse, comprenderà solo chi già a sua volta ha pensato i pensieri ivi espressi - o, almeno, pensieri simili"). E questo -se vogliamo seguire fino in fondo le argomentazioni di Wittgenstein: ma dietro Wittgenstein c'è tutta la vecchia grammatica, c'è Aristotele, c'è Cartesio, c'è Kant e c'è ogni pacifico passante- questo vale non solo nelle nostre relazioni con gli altri ma, ovviamente, vale anche quando comunichiamo con noi stessi. Lo smascheramento delle illusioni, totale. La solitudine è assoluta:

6.371 Tutta la moderna concezione del mondo si fonda sull'illusione
      che le cosiddette leggi naturali siano le spiegazioni dei fe
      nomeni naturali

e

6.52  Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili doman
      de scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali
      non sono ancor neppur toccati. Certo allora non resta più do
      manda alcuna; e appunto questa è la risposta.

Al Tractatus, come alla vita, non resta che proclamare la propria insensatezza e concludersi con un invito al silenzio:

6.54 Le mie proposizioni illustrano così:
     colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è sa
     lito per esse - su esse - oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v'è salito).
     Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente
     il mondo.

7    Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.
 

* * *
 

L'uomo dal fiore in bocca di Luigi Pirandello apparve presso l'editore R. Bemporad e F. nel 1926.

L'uomo dal fiore in bocca è un titolo, fuor di ogni dubbio, accattivante. Le rappresentazioni mentali che esso suscita sono rasserenanti: su un fondale tra tarda primavera e la mezz'estate ci rappresentiamo nella mente un uomo che, con un fiore tra i denti, passa, magari fischiettando. Un uomo sicuro di sé, se non spavaldo: ma di quella spavalderia che trasmette la vita rinnovata della natura, appunto.
Non basta. Scrive Jacques Derrida: "Un titolo è sempre un'economia in attesa della sua determinazione, della sua precisione, della sua Bestimmtheit, quella che esso determina e quella che lo determina. Determinante e determinato, è a lui che la determinazione ritorna sempre. Essa ritorna a lui nel senso in cui esso ne è responsabile, in diritto, e nel senso in cui ciò fa ritorno verso di lui da altrove, secondo un modo singolare del ritorno" . Se le cose stanno così, allora il titolo va letto per intero: va letto, cioè, anche ciò che accompagna il titolo e che, apparentemente/tradizionalmente, non ne fa parte. Intanto, il breve ca-talogo delle "persone del dialogo": 1. L'uomo dal fiore in bocca; 2. Un pacifico avventore. Cui segue il N.B. apposto appena sotto: "Verso la fine, ai luoghi indicati, sporgerà due volte il capo dal cantone un'om-bra di donna, vestita di nero, con un vecchio cappellino dalle piume piangenti". Ora, un lettore smaliziato, un lettore che non dico abbia letto il Tractatus ma che, vivendo senza bende sugli occhi il nostro proprio tempo, ne abbia percepito il filo o, meglio, il trefolo d'angoscia che lo percorre, sobbalzerebbe di fronte a quel "pacifico" apposto ad avventore. E quell'inquietante "pacifico" rimbalzerebbe all'indietro sulla rappresentazione di quell'uomo e di quel fiore che porta in bocca e indurrebbe il lettore a chiedersi se quelle immagini mentali, tra pri-mavera e primi calori dell'estate, già svoltesi nel suo immaginario, non nascondano un inganno, non vadano capovolte: come, di pari passo, andrebbe - allora - capovolto il destino profondo dell'essere "pacifico" di quel pacifico avventore. Non basta: perché questa inquietudine, appe-na avvertita, si ingrossa per "quell'ombra di donna" che "sporgerà" ("sporgerà": ecco, appunto, il titolo come anticipazione) il capo del cantone. "Ombra" è parola ambigua ma la quota delle zone negative che la investono è, comunque, la più consistente. Ma a toglierle ogni residua ambiguità e a caricarla completamente di lutto, interviene subito dopo - il "vestita di nero" con il "vecchio cappellino" e le sue "piume piangenti". L'iniziale rappresentazione mentale complessivamente positiva dell'Uomo dal fiore in bocca con la serie successiva di immagini che si trascinava dietro è, a questo punto, diventata ansiogena. I conti non tornano più: neanche per il lettore "pacifico", quello che non si è i-nerpicato per niente o si è inerpicato solo sui primi gradini della scala proposta dal Tractatus, quello che si sente sicuro e sente sicuro il mondo intorno a sé.

"Al levarsi della tela", le quinte - avverte la didascalia - si aprono su un paesaggio urbano notturno, al limite tra città e periferia (le ultime case, poi il vialone e i lampioni che tendono a diventare più radi). Siamo al fresco calore delle notti estive (i tavolini sui marcia-piedi anche di notte, avventori occasionali che lo frequentano). È una maliosa notte mediterranea ("Sarà passata da poco la mezzanotte. S'udrà da lontano, a intervalli, il suono titillante d'un mandolino"). "L'uomo dal fiore in bocca, seduto a uno dei tavolini, osserverà a lungo in si-lenzio l'Avventore pacifico che, al tavolino accanto, succhierà con un cannuccio di paglia uno sciroppo di menta".  L'uomo dal fiore in bocca "osserverà": come di chi guarda con curiosità più che con attenzione, da una distanza incommensurabile, un essere appartenente ad un mondo "al-tro" che, però, per la sua parte, non sembra darsene assolutamente con-to. Continua a succhiare con un cannuccio di paglia uno sciroppo di menta.

L'uomo dal fiore: Ah, lo volevo dire! Lei dunque un uomo pacifico è… Ha perduto il treno?

La prima battuta è conclusiva di un precedente discorso ("[…], lo volevo dire […]") e, nello stesso tempo, apre una nuova catena dialogica ("Lei dunque un uomo pacifico è […]") con il "dunque" a costituire la chiave di volta che chiude e apre, insieme, il doppio segmento del discorso. Quello già prodotto dall'avventore che avrà sfogato la sua rabbia per l'inattesa disavventura ferroviaria e quello che, dal levar del-la tela in poi, avrebbe prodotto l'uomo dal fiore in bocca. Il lettore non sa se il "pacifico" fosse stato già affacciato esplicitamente dallo stesso avventore pacifico -per definirsi, per definire sé di fronte alle proprie inattese disavventure- o se sia stato introdotto dall'Uomo dal fiore per attribuire a una categoria morale, di cui egli solo e nel se-greto della sua mente possiede la chiave, il suo occasionale interlocu-tore. "Ha perduto il treno?" segna la conferma di qual sia il punto di rottura tra la pacificità solita dei giorni e delle ore dell'avventore e l'inattesa disavventura che gli ha interrotto l'orizzonte delle certezze consolidate. La domanda di pura conferma è visibilmente ironica. Proiettato in una dimensione diversa, superata la linea del senso comune e buttata dietro le spalle la scala, la posizione dell'Uomo dal fiore non può non essere ironica. L'ironia è l'arma della distanza e della demoli-zione: della propria distanza dalle posizioni altrui e della loro, conseguente, demolizione. Demolizione che l'Uomo dal fiore mette in opera con rigorosa sistematicità; anche là dove, o soprattutto là dove, più sembra divagare, farsi prendere la mano da fili del discorso così personali, così sprofondati nel suo più interiore che qualsiasi altro, che non sia lui stesso, è impedito di seguirli. Così l'Avventore pacifico cade, pacificamente, nella trappola che, via via, sistematicamente l'Uomo dal fiore gli tende intorno. Pacificamente: proprio nel senso che non si accorge che via via si imprigiona in una tela di ragno da cui, alla fine, non potrà più venir fuori. Costui ripete, in pratica l'esperienza di quanto era già accaduto al lettore del Tractatus allorché doveva ri-spondere alla domanda apparentemente innocentissima: "Come si fa a cono-scere il significato di una frase?". Spiegando le parole della frase, una per una, con un'altra frase. "E come si fa a conoscere il significa-to di quest'altre frasi?" Con altre frasi ancora che spieghino, una per una, le parole con cui abbiamo spiegato le parole che costituivano la precedente frase. E così via via, sempre più giù fino a toccare il limite estremo del non-ritorno, il punto in cui l'inspiegato diventava in-spiegabile a meno che non lo si fosse già capito prima. Con il che si ritornava a capo e il gioco riprendeva all'infinito. Fino a quando, almeno, il giocatore pacifico del gioco della vita, e del gioco delle pa-role che fanno la vita, accortosi del labirinto senza via d'uscita in cui s'era cacciato/era stato cacciato, non dichiarasse chiuso il gioco perché si trattava d'un gioco "senza senso", dal quale non sarebbe mai venuto fuori vincitore. Fuori d'ogni azzardo.
"Pacifico" è colui che continua a giocare, perché, in ultima analisi, non gioca ma è giocato mentre l'Uomo dal fiore è il giocatore che smette di giocare perché gli è chiarissimo, oramai, che il gioco è un falso gioco le cui regole (se pur sono, sono nascoste in qualche inson-dabile lontananza) gli sfuggiranno perennemente: per cui non esiste alcuna possibilità che mai il gioco sia leale e ci sia, per lui, una mini-ma possibilità che vinca. Smessa persino ogni nostalgia di certezze, non rimane -allora- che attendere che colui che guida il gioco, lo concluda. Ed è, questa, l'unica possibile certezza.
Perduto il treno, perduto il centro, ogni cosa si capovolge nel suo contrario e, una volta capovoltasi, nulla vieta che si capovolga ancora nel gioco incessante del rincorrersi tra significati e cose, tra significanti e significati, tra lo stesso significante -infine- quando venga riutilizzato, pari pari, dallo stesso parlante.  Da questo punto parte la concentrata attenzione dell'Uomo del fiore sulle cose più minute, quelle che ci scorrono -giorno per giorno- sotto gli occhi senza lascia-re segni nella nostra anima: attenzione concentrata fino alla follia non nell'inutile tentativo di afferrare la vita che, comunque, scorre ma -proprio- per verificarne, di questa vita, incessantemente, la mancanza-di-senso. Il commesso che avvolge in una carta rossa e levigata i pacchi per i clienti, con, oramai, automatici gesti (e, proprio per ciò, abilissimi: per cui, poi, quella pacificità del pacifico senso comune che è, in fondo, non altro se non la serena aspettativa della realizzazione delle nostre attese); le serene scene di interni piccolo-borghesi; l'in-differenza della sedia su cui si siede l'ammalato, in attesa della pro-pria sentenza, nella sala d'attesa dell'ambulatorio; il fiducioso inoltrarsi nelle ombre della notte e la pacifica attesa del successivo giorno dei pacifici abitanti di Messina e il sereno obbedire alle norme del piano regolatore comunale delle case di Avezzano, pacificamente allineate in strade e piazze, a poche ore dai devastanti terremoti che le avrebbero cancellate. L'inganno, infine, nascosto nelle parole.

 […] caro signore, ecco… venga qua… lo farà alzare e lo condurrà sotto il lampione acceso qua sotto questo lampione…, venga… le faccio vedere una cosa… Guardi, qua, sotto questo baffo… qua, vede che bel tubero violaceo? Sa come si chiama questo? Ah, un nome dolcissimo… più dolce d'una caramella: Epitelioma, si chiama. Pronunzii, sentirà che dolcezza: epitelioma… La morte, capisce? è passata. M'ha ficcato questo fiore in bocca, e m'ha detto: "Tienitelo, caro: ripasserò fra otto o dieci mesi!

L’Uomo dal fiore in bocca è, in definitiva, colui che è stato costretto a passare dalla illusione della stabilità alla certezza della precarietà dell’essere. Egli non può più tornare indietro. Gli sforzi della moglie, che sa e non sa nello stesso tempo (perché sa veramente solo chi ha provato sulla propria pelle), sono necessariamente fallimentari. Una volta caduta l’illusione, non la si può più ricostituire. Al contrario dell’avventore che nuota (come ognuno di noi, illusoriamente sani di fronte alla malattia dell’essere!) nell’assoluta precarietà illudendosi di essere radicato nella saldezza di una sostanziale stabilità, le domande che può porsi l’Uomo dal fiore in bocca sono di una disarmante semplicità.
 
Può, colui che abbia scoperto la mancanza-di-senso del mondo e, con essa, delle parole che fanno il mondo (parole dolcissime per significare realtà amarissime), può starsene quieto a casa, tranquillo, tra le coccole amorose e sviscerate della moglie; può starsene a godere l'ordine perfetto delle stanze, la lindura di tutti i mobili, il silenzio di specchio che regna nella sua casa o nella sua vita prima che gli avvenisse di toccare con mano che la sua/la nostra vita è al-di-la-del-senso, il silenzio misurato dal tic-tac della pendola del salotto da pranzo? Per questa strada il destino dell'individuo si scopre avviluppato nel trefolo del destino generale delle cose: dalle case di Avezzano ai semplici gesti dei messinesi, dai gesti rapidi del commesso al fluire dei mesi ("[…], ripasserò tra otto o dieci mesi!").

[…] Perché, lei capisce, posso anche ammazzare come niente tutta la vita in uno che non conosco… cavare la rivoltella e am-mazzare uno che come lei, per disgrazia abbia perduto il treno…"

Ma il dramma vero scoppia proprio a questo punto: quando sembrava che tutto il travaglio doloroso si fosse concluso nella costatazione dell'insensatezza del mondo: perché le ragioni della ragione non bastano ad annullare in noi la nostalgia della vita che, perpetuamente/inevitabilmente, risorge al di là di ogni dimostrazione.

Ma ci sono, di questi giorni, cene buone albicocche… Come le mangia lei! con tutta la buccia, è vero? Si spaccano a metà; si premono, con due dita, per lungo… come due labbra succhiose… Ah, che delizia!

Riderà - Pausa

Mi ossequi la sua egregia signora e anche le sue figliuole in villeggiatura.

Pausa

Me le immagino vestite di bianco e celeste, in un bel prato verde in ombra…

Pausa

E mi faccia un piacere, domattina, quando arriverà. Mi figuro che il paesello disterà un poco dalla stazione.
*All'alba, lei può fare la strada a piedi. Il primo cespuglietto d'erba su la proda. Ne conti i fili per me. Quanti fili saranno, tanti giorni ancora io vivrò.

Pausa

Ma lo scelga bello grosso, mi raccomando.

Riderà. Poi:

Buona notte, caro signore.

E s'avvierà, canticchiando a bocca chiusa il motivetto del mandolino lontano, verso il cantone di destra: ma a un certo punto, pensando che la moglie sta li ad aspettarlo, volterà e scantonerà dall'altra parte, seguito con gli occhi dal pacifico avventore quasi basito.

* * *

L'immagine dell'Uomo dal fiore in bocca, che scantona dal lato opposto a quello dove teme stia la moglie ad attenderlo con le sue lusinghe, dice di quanto corto respiro sia quella nostalgia di cui si parlava di fronte al collo stretto dell'imbuto della vita.
È che la vita e il suo senso, come il significato delle parole, in ultima analisi, sfuggono perché non "possono essere descritti".

Si legga questo punto del Tractatus:

6.362 Ciò che può descriversi può anche avvenire, e ciò che la legge
      di causalità deve escludere non può neppur descriversi"

e si legga, poi, questa battuta dell'Uomo dal fiore:

 …Se la morte, signor mio, fosse come uno di quegli insetti strani, schifosi, che qualcuno inopinatamente ci scopre addosso… Lei passa per via; un altro passante, all'improvviso, lo ferma e, cauto, con due dita protese le dice: - "Scusi, permette? lei, egregio signore, ci ha la morte addosso". E con quelle due dita protese, la piglia e la butta via… Sarebbe magnifica! Ma la morte non è come uno di questi insetti schifosi. Tanti che passeggiano disinvolti e alieni, forse ce l'hanno addosso; nessuno la vede: ed essi pensano quieti e tranquilli a ciò che faranno domani e domani l'altro…:

il loro parallelismo è perfetto. Cioè, "6.371 Tutta la moderna concezione del mondo si fonda sull'illusione che le cosiddette leggi naturali siano le spiegazioni dei fenomeni naturali".
In verità, "6.373 Il mondo è indipendente dalla mia volontà" e "6.374 Anche se tutto ciò che desideriamo avvenisse, tuttavia ciò sareb-be solo, per così dire, una grazia del fato, poiché non v'è, tra volontà e mondo, una connessione logica che garantisce tale connessione, e co-munque questa stessa supposta connessione fisica non potremmo volerla a sua volta". Per cui, necessariamente:

6.14 Il senso del mondo dev'essere fuori di esso. Nel mondo tutto è
     come è, e tutto avviene come avviene; non v'è in esso alcun
     valore - né, se vi fosse, avrebbe un valore.
     Se un valore che ha valore v'è, dev'esser fuori d'ogni avvenire
     ed essere-cosi. Infatti ogni avvenire ed essere-così è accidentale.
     Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, che
     altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev'essere fuori
     del mondo.

A questo punto del discorso di Wittgenstein si incastra il richiamo alla contemporanea ricerca di Robert Musil. Ed è Cesare Cases che ci porta per mano. “Anche lo sguardo di Musil non è certo quello dello scienziato positivistico: caso mai è quello dello scienziato che ha vissuto la crisi dell’immagine meccanicistica del mondo e vede aprirsi dappertutto il principio di indeterminazione: perciò la precisione di cui è maniaco non è antitetica, ma complementare all’ambiguità; serve a smontare l’ovvietà del fenomeno nelle sue determinazioni apparenti e a mettere il bisturi sulla sua ambigua contraddittorietà per isolarne un punto che sfuggiva all’osservazione e che è, forse, quello essenziale, quello da cui bisogna ricominciare per ritrovare l’ordine nel caos […] la vera trama del reale trascende il reale stesso, e la “recisione" della ricerca conduce a scartare successivamente tutto ciò che si frappone tra il soggetto e i valori trascendenti. In questa associazione di volontà di chiarezza e di aspirazione al trascendente vi è pure qualcosa di specificamente austriaco: non per nulla Musil si interessò al circolo di Vienna e gli esiti del suo pensiero ricordano molto da vicino quelli di un Wittgenstein."  Ma torniamo a Wittgenstein.
La vita/il mondo è un problema irresolubile ("6.4321 I fatti appartengono tutti soltanto al problema, non alla risoluzione") e il suo come non ci appartiene ("6.432 Come il mondo è, è affatto indifferente per ciò ch'è più alto…") e, in ogni caso, a patto che vi sia un senso nel mondo. Inutile, perciò, porsi domande per cui non c'è risposta ("6.5 D'una risposta che non si può formulare non può formularsi neppure la domanda…"). Né c'è, correttamente, spazio per lo scetticismo ("6.51 Lo scetticismo è non inconfutabile ma apertamente insensato, se vuol mette-re in dubbio ove non si può domandare. Che dubbio può sussistere una risposta: risposta, solo ove qualcosa può esser detto").
I confini del mondo/della vita coincidono con i confini di ciò che può esser detto e poiché il dire non riesce a toccare, per suo proprio statuto, il significato delle cose, la parola dovrebbe coincidere con il silenzio.
Parla solo chi non sa che non può dire: avvolto com'è nel velo protettivo del senso comune. Il problema della vita si risolve quando sparisce il problema stesso perché solo "…alla morte il mondo non si altera, ma cessa" (6.431):

6.521 La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparire di esso.
           (Non è forse per questo che uomini, cui il senso della vita
           divenne, dopo lunghi dubbi, chiaro, non seppero poi dire in
           che consisteva questo senso?)

6.53 Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo:
      Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni
      della scienza naturale  -dunque qualcosa che con la filosofia
      nulla ha da fare - e poi, ogni volta che altri voglia dire
      qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle
      sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo
      metodo sarebbe insodisfacente per l'altro - egli non avrebbe
      il senso che gli insegniamo filosofia - eppure esso sarebbe
      l'unico rigorosamente corretto.
 

   * Questo scritto è dedicato a Rosanna, Giovanni e Simonetta
**  Il testo del Tractatus Logico-philosophicus utilizzato è quello apparso presso l'Einaudi
      nel 1964 nella trad. di Amedeo Conte.


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Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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