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Poetry Wave
 
 

Recensioni e note critiche

Silvia Caratti, La trama dei metalli
di Giovanna Frene

Silvia Caratti, La trama dei metalli
Lietocollelibri, Parè/Faloppio (CO), 2000, pp. 40, euro 10 
 

Già presente con alcuni notevoli inediti nell’antologia curata da Mario Santagostini, I poeti di vent’anni (Stampa, 2000), della giovane Silvia Caratti (nata a Cuneo nel 1972, poeta e musicista) il curatore rilevava la «razionalità del tormento» indissolubilmente unita alla coscienza della propria stoica ma anche sofferta solitudine, nonché la presenza infera, opposta all’assenza del dio, di una «sorta di sotto-terreno devitalizzato, morto, fossile» come «un al di là mineralizzato, con il quale l’io (…) mira all’osmosi attraverso un panismo totalmente thanatoico», facendo dei richiami letterari al lato cupo dei versi di Sandro Penna e al filone di poesia definita da Mengaldo «orfico evasivo» (da Onofri a Conte). Maurizio Cucchi, nell’introduzione a La trama dei metalli, mettendo in luce «la forza viva e spoglia, la non comune fermezza di pronuncia» della Caratti, parlava anche lui di una fisicità prepotente, che «parrebbe volersi chiudere nell’inorganico», che tuttavia poi lasciava filtrare e prevalere «l’umore, l’umidore, la sfarsi dei corpi», elementi derivati dall’attenzione dolorosa per l’esperienza. Sono, questi, dei rilievi essenziali da cui partire per chiarire ulteriormente questa poesia, che come nei versi di Giovanni Raboni raggiunge il massimo del risultato con il minimo (apparente) dello sforzo. 

Scriveva Andrea Zanzotto, in un suo ormai celebre saggio su Montale del 1953, L’inno nel fango: «Più che l’espressione di una teoria c’è in Montale l’attuarsi (…) di una realtà spirituale compresa e solo parzialmente sentita fin dai tempi di Foscolo e di Leopardi: in un mondo senza dèi la storia ben difficilmente avrebbe potuto conservare il suo senso umano, sarebbe stata inevitabilmente portata a coincidere con la storia naturale a tutto vantaggio di questa. Ricercando le sue origini, la vicenda umana trova quella degli animali mostruosi e della terra, la scienza storica sfuma nella paleontologia e infine nella geologia». Se dunque il poeta ligure, all’altezza degli Ossi, rileva che «destino umano è l’“interrarsi”, il ridursi a sedimento», Silvia Caratti in questa sua opera prima percorre con la poesia il processo opposto – ora che il nichilismo sembra avere superato la linea fatidica, o perlomeno essersi ben stabilizzato sul bordo –, attua un dissotterrare la materia geologica, simboleggiata dal massimo inorganico espresso dai metalli, per riconoscere nella loro trama che il processo di cosificazione è ormai compiuto, che la loro fibra è proprio la stessa nostra. Un atteggiamento che lontanamente può richiamare lo scavo della poesia di Heaney, se non fosse che per il poeta irlandese anche questo diventa metafora dello scrivere, in analogia con il lavoro dei suoi antenati. Non così in Caratti, per cui casomai è la scoperta mentale dell’inorganico, della mineralità, a porsi come analogica alla fisicità corpo, mentre la poesia, più che di parole, e una questione di nomi di cose. Da ciò si vede che il lirismo di questa raccolta è solo apparente, e che la storia è assente perché fin troppo intrinseca, per i motivi spiegati sopra, al nascere stesso del verso. Vale a dire che l’esito della poesia della Caratti s’inserisce coscientemente in un lungo processo letterario e filosofico che nulla ha di evasivo, e che la fisicità – quel nome del corpo che si pronuncia poesia – è già essa un dato di fatto inorganico metaforizzato, è cioè una conseguenza della ormai acquisita degradazione dello spirito occidentale. 

Non altrimenti si spiegherebbe la massiccia presenza, quasi totalizzante – e si badi, in un terreno testuale quasi del tutto spoglio di artifici, se si tralasciano rari paragoni, enumerazioni, anafore, paronomasie, epifrasi, un arcaismo lessicale –, della figura retorica della metafora, anello formale che costantemente esprime il disagio insito nelle pieghe del nostro vivere contemporaneo, dove la legge è quella inesorabile del corpo, di questo nostro corpo avvinghiato alla terra («se siamo, e lo siamo, / sangue e terra», p. 18), e che con i metalli ha in comune la durezza del nucleo, la levità del nome poetico forgiato dal poeta con le sue domande sull’esserci: «[il tuo corpo] Lo credevo una parabola, / un canneto spoglio bisognoso d’acqua» (p. 2), «ho sentito dire di uno / che va nelle officine a forgiare i metalli» (p. 3), «lasciarti vincere ogni battaglia / senza restar ferita» (p. 4), «I nostri corpi erano balestre / e legni disseccati al sole» (p. 6), «La bestialità è più subdola / se sta fuori da una guerra / combattuta col ferro solo» (p.7), «Vorrei poterti entrare fin nel nucleo» (p. 8), cripto-metafora gemella alla successiva «Potessi stare in una circonvoluzione / sondare la pia madre / andare a stanarti. / E sventrarti» (p. 10), «I metalli sotterranei / indicano la via della purezza: / il nocciolo duro» (p. 13), «Le persone fisiche imputridiscono le vie / su cui noi camminiamo» (p. 15) – tanto per citare le maggiori. 

Un tale livello di nichilismo non può che avvallare, infine, quanto promesso dalla citazione che l’autrice pone in esergo alla terza sezione: «Sono ridotto a una cornice / eppure mi attraversano / sentimenti bellissimi» (Maurizio Cucchi). La significativa carrellata di personaggi “tormentati”, quali Michelstaedter, Hölderlin, Levi, Wittgenstein, Casorati, Canetti, Schönberg, Alma Mahler, Brahms, Schumann, serve come esemplificazione metaforizzata dello stesso assunto di queste poesie, perché appunto «…fummo la perdizione, ti dico, / e insostenibile, per questo, è ritrovarsi» (p. 27).

 
8 luglio 2003 
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Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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