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Poetry Wave
 
 

Recensioni e note critiche
La poesia di Luigi Durazzo
di Roberto Roversi


Dove va l’uomo? Dove va la poesia?

I testi di Durazzo, almeno per me lettore, chiamano, anzi sollecitano costantemente, una condivisione di partecipazione non tanto emotiva ma riflessiva. Soprattutto riflessiva. Cerco di precisare: una riflessione tutta di ebbrezza e dolori, un insieme di precipizi e vincolanti impulsi. La sua costante descrizione, la sua costante enunciazione di partenza, è spesso legata al brivido di un richiamo straordinariamente perentorio, cioè (lo identifico) a quello di un mondo o sopra un mondo che è andato dilapidato (fuori di noi, nelle cose, e dentro di noi, nei sentimenti), oppure che ci è stato sottratto con imbrogli e livori ma che, tuttavia sgocciola una scia di cenere della sua trapassata grandezza, così da consentirci di percepirne gli ultimi palpiti e da non scancellarlo del tutto dalla memoria generale, dalla memoria degli ultimi assassini.

Dal fondo di questa  memoria via via oscurata, da questa profondità disastrata e amara, scavata dall’ignavia e dal tempo, riescono a salvarsi dal setaccio dei pazienti ricercatori pagliuzze minute, frammenti spezzati e splendenti che alimentano il fuoco di quella nostra memoria (o sembrano soltanto illuminare la drammatica oscurità a cui alludevo), ridando, sia pure per respiri di tempo, qualche speranza, qualche sostegno alla speranza di poter in qualche modo ricuperare, rinnovata da noi e indispensabile per noi, l’antica armonia, l’antico equilibrio e quella antica saggezza che era vento del cuore e si spandeva (appunto) ogni giorno, ad esempio, nei meandri delle città e nelle piazze dell’Ellade non mitica ma reale.

Durazzo, sul foglio bianco( come una distesa di spiaggia solitaria sulla riva del mare che non dorme mai) enumera dati, esempi in una rapida successione e ogni volta - quando il testo lo propone - è come se una mano protesa, strisciando con cauta, lenta armonia nell’aria, si appoggiasse sulla nostra spalla scotendoci per indicarci, di fronte a noi, un nuovo panorama di rattenuta emozionante violenza (un sommovimento che sprigiona fuoco e rose), intento a lacerare, a cancellare, o almeno a sbiadire pregiudizi e imprigionati sgomenti.

Fin dal principio, nell’esemplare enunciazione di Esodo, un verso secco e rapido come un’indicazione estrema sembra incenerire la pagina: “l’uomo è fuggito altrove”. Un’essenza, dunque, drammatica e fatale da questo mondo, da questo luogo di durevole infamia, una volta (ripetiamolo) accompagnato da una sofferta perfezione almeno nella chiarezza dei pensieri oppure intento a cercare coi pensieri una straziante faticosa ebbra armonia. Nell’aspirazione a inseguire sempre le idee e la sovrana immaginazione. Adesso, l’uomo, la sua presenza reale, è fragile e labile, sdrucciolevole compromesso tra  un avido avere, un avido potere, una selvaggia tracotanza nel mordere e masticare insaziabilmente solo la polpa del guadagno immediato, dell’applauso immediato e del disimpegno liberatorio da ogni ragione di partecipazione costante e disinteressata.

Con l’uomo che non si trova (nascosto o fuggito o consumato o travalicato dagli eventi calamitosi) e quindi assente nella sua prepotenza vitale e provocante, proprio in questi anni che avrebbero bisogno di intelligenze potenti e lungimiranti, anche la poesia – questo misterioso carro portatore di voci, di ombre e di grida sempre allertate dalla rabbia o dall’amore – sembra così appartata, isolata e appisolata come un uccello sul proprio ramo, tanto da richiedere la liberazione di una forte convinzione per essere di nuovo afferata e ributtata sul campo del mondo dove continuano ad intrecciarsi le mille battaglie, al fine di tenerci svegli con i suoi suoni profondi e di scuoterci ancora nell’intimo dei sentimenti e delle idee.

Così, mentre la mente riflette, il pensiero s’invola sulle ali delle parole magari ubriache di sole sulle pagine, succede all’improvviso che quasi uscendo senza fiato da una caverna, i testi si complicano utilmente con l’apparizione di persone vigorosamente esemplari, schizzate sul marmo (o su una pietra) perché restino davvero a documentare una condizione comune a tutti in questo nostro tempo, nel quale la vita, il corso dell’esistenza di ognuno trapassa con una necessità che troppo spesso ci lega a una fatica standardizzata o a una reciproca indifferenza; perché ormai sembra che quasi tutti siamo feriti da una solitudine costante e strisciante – che è un male, un dolore profondo e solitario. Lasciati soli, noi così tendiamo anzi ci affanniamo a lasciare solo il mondo. A concentrarlo dentro la sua furia e lasciandoci trasportare (trascinare) sulla nave dell’ipocrisia per effimere, rapide occasioni di rivalsa, recriminando la nostra generale protervia e la nostra arida indifferenza.

Questi testi, come ho detto per me lettore, inducono a respingere la consolazione e l’assoluzione dei nostri continui compromessi comunque camuffati e (invece) ad allungare la mano sul fuoco della verità, che non riflette altro, come uno specchio impietoso, se non il guasto ossessivo che l’uomo ha perpetrato (e continua ritenendosi libero e assolto, a fare) contro se stesso e contro questo nostro mondo che sembra in disarmo; appagandosi soltanto, e stringendosi convulsamente adesso, come un mercato avaro, di miserabili e troppo rapidi benefici.

In “Furore” è l’antico nella sua splendida esaltazione che sembra ritornare non fra noi ma proprio addosso e noi col tramite del sogno – o dell’immaginazione turbata da una irrequietezza generosa, piena di luce, per cercare anche nel sogno di illuminare tutti i dettagli di una vita ritrovata e ricostituita. Con la riconquista di un territorio in cui essenziale sta ferma in attesa la poesia; una poesia che cerca, che fruga, che morde e che sembra lì pronta a muoversi, come portata a fiore del mare sulle ali di un Icaro del duemila, disposto a tutti i confronti per sconfiggere ogni rinuncia di vita, per sconfiggere finalmente dopo il lungo errare, il dolore di ogni rinuncia e l’acro affanno della morte.

30 maggio 2003


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Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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