Vico Acitillo 124
Poetry Wave

Recensioni e note critiche

Gianmario Lucini, Allegro moderato
di Alfredo Rienzi


Gianmario Lucini, Allegro moderato Montedit, Melegnano, 2001  

Con questa raccolta di poesie Lucini si dimostra poeta attento e consapevole, mai banale nelle scelte dello stile e del contenuto e dagli esiti molto interessanti.

Allegro moderato offre molti aspetti che meritano di essere considerati. 

Nella nota introduttiva di Fabio Ciofi e nella breve prefazione di Giuseppe Cornacchia alcuni di questi sono, giustamente, già additati con precisione e pienamente condivisibili: la tensione etica, la ricerca del senso dell’esistenza e delle cose” e “dell’Assoluto”, il ritmo “di una musicale discorsività asciutta e priva di fronzoli”.

E’ stimolante spendere qualche riflessione su questi aspetti e su altri, tentando, anche provocatoriamente, qualche angolo di visuale più defilato e meno neutrale. 

Mi pare che questo esercizio possa essere particolarmente adatto ad un poeta come Lucini che, a quanto emerge da Allegro moderato, è tutto fuorché neutrale o impersonale e le e cui scelte stiliiche ed ideologiche danno forti indizi.

La consapevolezza stilistica

Da un punto di vista stilistico-formale pare chiara la capacità di dominio e governo che Lucini opera sul proprio slancio versale. Sostenendo nel complesso della raccolta, e specie in alcuni passaggi o sezioni, una costruzione tematica tesa e vigorosa, si sarebbe potuto rischiare che quella “vena oratoria” che l’Autore stesso, in una Autopresentazionedei testi (nel sito letterario Poiein), si augura di far stare dentro un discorso poetico, potesse smarginare nel didascalico o nel retorico. Lucini evita con grande nonchalance questo rischio sulla scorta, in primis, di una matura sincerità dell’emozione, che una forma attenta argina senza soffocarne il pathos.

Lucini si avvale di un incedere asciutto e per larga parte discorsivo, senza mai appiattire la musicalità del verso e amputare il ventaglio lessicale, anzi, come fa osservare Adriano Napoli in una nota presente nell’Archivio di Poiein, manifestando una certa “bulimia stilistica ricercata attraverso una inesausta voracità espressiva e lessicale”. Questa verve stilistica è ben dosata in modo da non distogliere troppo l’attenzione dal contenuto. (Per inciso: mi pare più “moderato” lo stile che non il contenuto, a tratti movimentato e sferzato dal coraggio del pensiero e dai frequenti lampi assertivi, specie ma non solo, nella silloge d’apertura).

 

La dove il punto di partenza è, con una certa inevitabile approssimazione più oggettivo e mi si passi il termine menofilosofico, come, per esempio, nell’ultima bella sezione Fiori, costellazioni di nomina si aprono e si mostrano ricche ma sempre funzionali al testo e mai fini a se stesse e/o baroccheggianti, potendo considerare quel singolare “trillo, cardillo, scrimolo, gingillo..“ di Ipocondie scarlattiane sostenuto da screzio ludo-ironico.

 

Merita notare, coerentemente col titolo, un profuso ricorso a lemni musicologici ed una certa presenza di metalinguismi che forniscono indizi sul background culturale di Lucini, anche senza dovere attendere la lettura di Pedagogia ufficiale o passare per il curriculum vitae dell’autore: aseità, evidenza iper-critica, olismo di sensi, metessi, reinfetarsi.

Curioso trovare tra anglismi assortiti (talk-show, reception, etc.) gli italianizzati nicciana e Macbetto.

Il verso fluisce diretto ed immediato in tutte le sezioni, costeggiando solo in rari casi forme del linguaggio “parlato” più colloquiale (“combini un bel casino”; “e batti che ti batti”) e scorciatoie sintattiche (“scruta la casa noi assenti”) e prediligendo una sobria ma elegante inventiva, senza mai abdicare alla soluzione più scontata o smarginare nel gergale, (tentazione questa ben presente in molti testi contemporanei e non sempre con esiti felici).

La godibile musicalità del verso si contrappunta anche sul ricorso, non dominante ma significativamente presente, di rime e assonanze il cui uso, anche in questo caso, appare calarsi nello svolgersi dei testi senza forzature o sacrifici del senso alla forma.

Si veda ad esempio in Angelus Dominae, poesia d’apertura di Tivù, (sciagure / uditore – annunciatrice / benedice – rottami / lontani – ora / vapora) e le lunghe catene: indecenti / intelligenti / indolenti / tracotanti / latente (Ipocondrie scarlattiane); tenaglie / marmaglia / scaglia / attanaglia; ovazione / occasione / visioni / scansioni in Stadio (si noti lo stratagemma tecnico proprio in un testo più di altri a rischio retorico).

Nella totalità dei casi rime e assonanze non dilagano mai per l’intero brano ma si limitano a qualche breve sequenza di versi, accentuando la sensazione di assoluto controllo della mediazione che Lucini concreta tra suono e senso e indicando non raramente una certa coloritura dissacratoria e ironica.

La lucida costruzione del testo è evidente anche da come Lucini, con la stessa calcolata attenzione, si concede, più che per intrinseca necessità – come sostiene Ciofi nella nota introduttiva - per consapevole scelta, alcuni slanci lirici, qua e là, in aree protette all’interno del parco dei versi (“dove danzano superstiti falene/ nel profondo di certe estive brume”; “una parola che lieve / e noncalante vola su distratte / intorpidite membra della sera”). 

La citata sensazione di un uso a volte ironico del tono lirico, diventa manifesta, quasi un’aperta dichiarazione, in Voce dove lo scarto è netto tra i primi tre endecasillabi cantilenati e la scabra discorsività che “desta e ci introduce” al “ponte verso il domani”.

In questo scarto c’è molto dello stile di Lucini, sempre padrone, del come costruire in versi l’adatta navicella in cui riporre e affidare le proprie ragioni ed emozioni e la “sobria / metafora di questo nostro andare / … in tondo navigare intorno all’uomo”. 

Tivù: tra salvezza e perdizione

La prima silloge di Allegro moderato, Tivù è certamente quella in cui la tensione etica e morale dell’autore palpita con più energia. Vanno in questo senso sia le affermazioni di Ciofi e Cornacchia (cit.) sia le osservazioni di Napoli (cit.) che, per altro, sposa l’impressione di una coloritura più moderata della vis indagatrice che Lucini esercita su un quotidiano più grottesco che tragico.

Lucini, fa scorrere la galleria dei topoi televisivi come in un palinsesto ideale (dal Talk show alla terza serata, dal servizio Educational alla partita di calcio), li osserva, ne fa occasione di dissezione e percezione, infine li trascende nella ricerca di un senso complessivo a volte esplicitato chiaramente, quasi assertivamente, altre volte in modo meno diretto ma comunque senza intermediazioni simboliche troppo enigmatiche e/o svianti.

Il richiamo, l’impellenza, la prepotenza del “mondo massmediatico”, mistura di realtà amplificata e/o distorta e di artefatto e virtuale) è dominante nell’occidente contemporaneo, laddove “occidente” si deve ormai intendere non in senso geografico, chiaramente, ma culturale, con pericolosa sinonimia con globalizzato.

Vengono in mente, limitatamente a questo contesto sui mass media, le attenzioni del Magrelli di Ecce video e di Didascalie per la lettura di un giornale.

Ma il senso di cui Lucini ammanta l’intera sezione e, vedremo in seguito, l’intera opera, è certamente peculiare. “Un modo altro di essere nel mondo” chiosa Giuseppe Cornaglia nella introduzione ed è un buona affermazione da cui partire. Ma è anche un altro modo di essere del mondo, di cui l’autore ci fornisce una sua chiave interpretativa: la rassicurante linea di demarcazione tra mondo fenomenico e mondo causale, tra i domini dello scibile/conoscibile e dell’inconoscibile, la metessi tra Ideale e Sensoriale, si disgregano drammaticamente, e si perde la connotazione, portante e stabilizzante, del pantheon tradizionale.

La caduta degli dei (la morte di Dio) che, sgrossata dalle ipocrisie religiose, è in primis eclissi dello spirituale e, a discendere e non viceversa, corrosione del morale, lascia vuoti di senso che alla lunga non sono sostenibili per l’uomo (e la società), creatura o accidente evoluzionistico che si voglia, ma comunque necessitante, come di acqua ed aria, anche di un qualunque fondamento “religioso” (in senso lato non importa se teologico, ideologico, sociale, politico) per la propria sopravvivenza morale e spirituale. 

Lucini vive di questa intima tensione e coglie mirabilmente questo senso, coraggiosamente si spinge, non solo come osservatore neutrale, sul campo di battaglia dove languono e soccombono gli Dei del nostro “passato” (“da quando Dio è defunto”) e con luce sinistra rilucono nuovi Dei, con i loro messaggeri e simulacri (“il fiato di un dio che irrompe”).

La sua arma non è l’accesa declamatoria, la sferza dogmatica, la retorica ma una parola (a tradurre un’Idea e un’emozione) dai toni variamente graduati, ma mai lontana, defilata o acritica. 

Di grande nitore nella rappresentazione di questa epopea (purtroppo però la battaglia appare conclusa e i vincitori-invasori già hanno instaurato il loro imperio) sono alcuni componimenti, cui ruotano attorno, come epifenomeni, le altre tessere della sezione.

In Angelus Dominae, poesia d’apertura, con forza si annuncia (e l’Angelo è proprio un’annunciatrice) la nuova religione massmediatica, il “nuovo stato di uditore” ed il “nuovo dio che irrompe / e ti rapisce oltre lo spazio, oltre il tempo” (Metempsicosi). La telecamera è di questa nuova divinità l’occhio (Oculus Dominae), e il pendolare “dalla dispensa al soggiorno” tra le fosforescenze dello schermo e l’abat-jour è in Quasi mistica il nuovo rito che si celebra, per “la cupa maestà d‘eremita, luce / immanenza e trascendenza…./occhio del mondo, sua essenza e modello” (Se avesse un’anima). La tele-divinità ha il suo totem, il suo simulacro tecnologico, cui “gli oggetti intorno stanno tutti muti” , vera e propria Arca Santa di questa nuova alleanza “occhio che osserva anche quando è spento…/ cuore che spia / rovente da orbita nera…” (Interno), possente e tremenda come quella veterotestamentaria: “se la risvegli / la sfidi”.

Rivelata per simboli ed epifanie la nuova religione, in Teosofica Lucini ne scolpisce la dogmatica “Da quando Dio è defunto, qualcuno / dovrà pur assumersi la briga / di curarsi dei nostri malanni/…/ protenderci a un luogo di salvezza e prospettiva / d’altro orizzonte”.

Da questo punto in poi, “in un darsi e ritrarsi fra salvezza e perdizione”, che stride con l’ostinata negazione della morte (“di non morire mai l’unico affanno / televisivo”) si discende su un piano in cui risuona a voce sempre più alta l’istanza morale, come molto ben evidenziato da Ciofi (cit.), la ribellione e lo sdegno per questa “religio di scena” e per i suoi riti degenerescenti, “Televisione…/ corazza di morale collettiva / per supplire a un’assenza di morale…”dove “non ha più onore…/ l’orrore di uno che muore, / subito prima della bionda degli assorbenti” a fronte della quale, impotente, giace scontento il ‘900 con il suo popolo dall’ “anima evasa dagli occhi, dissolta / in questa troppa vertigine”, e dove, per bocca di un eliottiano Lazzaro, il poeta si commiata, tra amarezza (“non è che…/ …desiderio inutile il riscatto) e dubbio (“il vero dell’effimero e l’effimero del vero”) al bivio tra salvezza e perdizione, morte, fortuna… 

3. Esistenze parallele ed un alone di panteismo

Se Tivù elargisce già abbastanza elementi per riempire di valori e di valore Allegro moderato, le sezioni successive, fino a quella di chiusura Fiori, forniscono materiale per continuare alcune delle riflessioni introdotte da Tivù o per introdurre nuove prospettive.

Transitando in territori popolati di naturalia, secondo Ciofi con un “effetto di straniamento” che è poi parziale e totalmente coerente e armonico, anzi integrante l’indagine di Tivù, con Fiori il cerchio dell’opera si chiude, come il serpente Uroboros che si morde la coda, con la pacata esplorazione di un’altra linea di confine tra due dimensioni comunicanti (i fiori e i loro umani). Con la prospettiva osservabile, a mio parere, in Fiori, l’intero cerchio della tesi poetica mostra il suo centro (o uno dei suoi centri: è ben noto in poesia, che il “centro” di attenzione e significanza varia in diretta correlazione con la prospettiva del lettore…)

Abbiamo visto come in Tivù sia fondante il rapporto (la metessi) tra la dimensione-status dell’umano-uditore e dell’altrove “immanente e trascendente”. Messaggeri e simulacri abitano i piani dell’esistenza tra l’Ente superno, il Principio ( o il suo Usurpatore televisivo) e ed il livello inferiore dell’Uomo, della Manifestazione.

In Campeggio vegliano, guizzano, riposano, danzano, scrutano, in una parola vivono, osservati in un tempo sospeso e osservanti, altre forme, altre esistenze: pesci, uccelli, insetti.

In Fiori altre “semplici esistenze parallele” si animano, vivono di vita propria. E’ un “popolo mite” di un “cielo” ancora inferiore. Gli abitatori del giardino, del balcone vivono “silenti ed eloquenti” una loro vita pensante ed emotiva (“tradiscono nel vento: / il sentimento stesso del divino, /voglia di esserci voglia di esistere; senza domani vivono cantando; se la ride il tronchetto adolescente; l’ombra intristisce il tuo fiore). E quando il geranio “attende con pazienza l’occasione / della sua redenzione” viene come a riflettersi su questo piano vegetale quella straziante luce cosmica che già, con altre fosforescenze, aveva investito gli umani di Tivù, straniati dall’inceppo tra l’uomo ed i suoi dei. Si ricrea qui, su un altro livello, in un altro specchio micro-macrocosmico, la rappresentazione simmetrica tra il basso (il floreale “popolo senza mura”) e l’alto con le sue divinità (“Marina dea dell’amore e della morte; E’ la sorte / di tutti, Marina, è la morte / che li nutre e li disseta / unica certezza”). 

Il gioco di concatenazioni si dipana per rimandi, di dilata e si richiude nella circolarità dell’esistente (“Marina ed io siamo il loro pubblico / comodo in platea / dentro il teatro d’un altro destino”) svelando o quanto meno facendo sospettare una cosmogonia permeata da un panteismo paracelsiano, in cui i diversi piani dell’esistenza, della manifestazione fenomenica vivono di vite multiple, partecipi di un unico ciclico movimento di caduta e risalita, di contrazione ed espansione, di mai definitiva perdizione e salvezza. 

Un post-scriptum per conclusione

Avrei voluto, tirando le somme, riflettere sugli esiti di questo bel volume di versi in relazione all’Autore, al suo retroterra di critico letterario e da lì avviare uno dei tormentoni per me più conflittuali, quello sulla (in)opportunità-(in)utilità, inevitabilità o necessità di praticare “entrambi i versanti” della scrittura poetica, critica e creativa, etc. etc.

Mi sembra invece perfetta già di per sé, nella sua essenzialità, e addirittura necessaria dopo tutte le parole e osservazioni, alcune sicuramente poco chiare e forse ridondanti, che ho prodotto, la conclusione della prefazione ad Allegro moderato del giovane Giuseppe Cornacchia, semplice e genuina, e per questo ancor più significativa: “Lucini sa il fatto suo e nei suoi versi c’è molto contenuto”.

da La Clessidra, n. 2/2002


7 febbraio 2003

Indice generale


Immagine: Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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