Vico Acitillo 124
Poetry Wave
 

Recensioni e note critiche
Luigi Celi: Il centro della rosa
di Sandro Montalto


Luigi Celi, Il centro della rosa
Edizioni Scettro del Re, Roma 2000
 

Questo volume di Celi si configura senz’altro come uno dei più originali degli ultimi anni, un libro che si sforza (come risultato di una ricerca più che come intenzione aprioristica e programmatica) di proporre un tipo di poesia per molti versi innovativa e lontana, distaccata dalle comuni e più comuni linee poetiche attualmente operanti in tutta Italia.

Il titolo già ci porta nel regno del simbolo e della simbologia coinvolgendo quindi saperi antichi, e coinvolge in modo chiaro e significativo due aspetti: quello geometrico del centro e quello estetico-simbolico della rosa. Da qui potrebbe partire tutta una lunga serie di riflessioni ed ipotesi che ci porterebbe molto lontano, ma d’altra parte già molte cose le dice Cesare Milanese nella sua accurata prefazione. Noi ci limitiamo ad aggiungere e ricordare come sia coinvolta la nozione di tempo: il fiore primordiale “shoshana” della tradizione cabalistica, cui corrisponde la “rosa” dell’Antico Testamento, simboleggia in virtù della propria forma il tempo che ruota e la legge secondo la quale le cose devono venire ed andare, una legge della caducità ma soprattutto della circolarità, luogo ben presente nella poesia di Celi. Lo stesso Nicolò Cusano nel saggio De ludo globi (1463) ricorda come la rotondità è il movimento «della vita perenne e infinita […]. Né il concetto né la natura del movimento circolare o della perennità possono essere conosciuti o posseduti in altro modo che non prendendo come principio il centro attorno al quale il movimento continuo si muove», introducendo il moto nella concezione statica medioevale ma anche condannandolo alla ripetizione e all’assenza di un vero punto di arrivo. Da qui rose, rosette e rosoni divennero decorazione tipica di moltissime chiese ovunque disseminate, inaugurando così tutta una tradizione cristologica (ed andava consolidandosi anche la tradizione della Vergine come “Rosa Mistica”) nella quale il Salvatore sta al centro della rosa, immutabile, irraggiando verso l’esterno, nell’unico punto fermo, e collegandosi alla corrispondenza fra la visione del mondo e l’osservazione degli astri (siamo naturalmente in un’ottica geocentrica, o meglio antropocentrica). Da una concezione come quella di Cusano, Cristo e quindi la Croce al centro del cerchio della rosa, prende vita la simbologia dei Rosacroce, che salirà fino a Hegel e (e qui ci ricolleghiamo alle affermazioni di Milanese sui mandala) a Jung. Tutto ciò, tutto questo carico di simboli assegnato alla rosa, è comunque ovvio se si considera la sua forma con petali concentrici nel bocciolo, i raggi convergenti uno sull’altro dei petali nel fiore una volta sbocciato… (citiamo come curioso contrappasso i fiori che in Alice attraverso lo specchio si interrogano sul significato dei “petali” di Alice). Fino ad indurre Dante a descrivere Maria come «la rosa in che ‘l verbo divino / carne si fece» (Par. XXIII 73), e come «candida rosa» la «milizia santa / che nel suo sangue Cristo fece sposa» (Par. XXXI 1-3) dei beati (si ricordi come Dante vede innumerevoli angeli andare ininterrottamente dal centro della luce divina ai seggi dei beati, per portare la divina carità e simboleggiare l’irradiazione ed i raggi del cerchio), nonché a descrivere il suo andare fra seggio e seggio come un andare «per la rosa giù di foglia in foglia». 

Questa lunga digressione serve a chiarire più concretamente come la simbologia scelta da Celi abbia radici antiche e solidissime, nonché significative. Per Celi poesia e filosofia sembrano avere la stessa valenza: ambedue devono indagare il reale nella sua totalità e scriverne con lingua chiara e dura, solida possibilmente quanto la materia che va trattando, all’occorrenza aspra. Questa poesia sembra infatti, più che dura o austera, aspra per una solennità di rito arcaico, forse a tratti incerto ma reso solido dalla fede in pochi ineluttabili simboli: se dovessi pensare ad un corrispondente brano musicale penserei senz’altro alla Messa glacolitica (1926) di Janácek. E all’improvviso la deflagrazione delle potenze primigenie: «esplode la mistica rosa / l’Indiviso / in galassie di numeri // i petali di cui s’orna / sul declivio divelti / l’anima cattura / nell’aperta corolla della luce // e / non permette / che si disperda il Senso». La pesantezza delle parole più del ritmo, il potere delle maiuscole più che quello della rima: monoliti, insomma, più che solenni architetture. E fra le altre peculiarità di possono citare proprio le fusioni di parole, neoformazioni che significano (anche) la pressione di masse primordiali: «occhirame», «succosangue», «retronulla», «arbustinvento», «lievombroso» e via dicendo. Il tutto in un vortice che attira, pernicioso o no che sia, verso il suo centro: «nel centro della rosa sta il segreto del mondo / nulla può compensarci di non avere tempo / d’indagare in essenza». Quanto alla struttura organizzativa dei testi di Celi, poi, impossibile tacere la loro frequentissima importazione tipografica centrata, distribuita come una epigrafe, simmetrica sull’asse centrale «che li ripartisce tipograficamente in parti uguali, svincolati come sono dal facile musicalismo della metrica usualmente prescritta» (Milanese), il che si sposa perfettamente con la nozione di asprezza (più che di «aulicità», come invece dice il prefatore) sopra proposta. 

Non mancano, anche se sono molto rari, i momenti apparentemente più intimi, le concessioni ai sentimenti slegati dal sacro: «più in là incredule conchiglie / madreperlacee vulve / evocavano amori tra le balze»; ma subito un altro passo ci ammonisce dicendoci che il senso sacrale invade e pervade ogni momento dell’esistenza: «negli occhi rapinosi tuoi d’uccello / riverberavano amori / limpide lune nell’inquieto cielo / poiché d’arcane misteriose fole / fosti condotta nera tra lapilli». Anche a costo della vita: «si può perfino morire / se non si frena l’onda / che c’invade improvvisa / mentre si contemplano le cose». Tutto è chiarito più avanti: «oltre di esse / Dio // vorrei che ogni amore / anche il più carnale / fosse un andargli verso». 

Insomma blocchi, entità salde a terra, materialissime, concrete (si noti come nonostante la carica simbolica le parole siano – con rarissime eccezioni: «salpingi», «Ekpyrosis», «èlitre» - semplici e comuni) e simultaneamente cariche di simboli, immesse in un tempo circolare (più che in un’assenza di tempo), in un vortice che coinvolge quindi sia il tempo che lo spazio che il simbolo: «ora comprendo come tutto / sia uno / e il moltiplicarsi del numero / il divenire / un’invenzione della ripetizione / per l’eterno»; Ricerco in interiori lucori / ciò che esternamente s’oscura // […] il centro della rosa / sta nell’invisibile dove // […] ma la rosa // la rosa è sogno / dell’Eterno». 

Indubbiamente si tratta di un libro dall’ispirazione doppia: sia sacro che profano, si ispira di qua ai Salmi e a molti altri libri biblici, ai Veda e via dicendo, e di là a Tagore, Rilke, Hölderlin, Dante, Pound, i lirici greci… e poi Nietzsche, Jung… Si nutre di letteratura e di filosofia consolidando la sua idea di tempo circolare, di angoscia del tempo, di tempo non necessario: «ma il tempo si libera del tempo / in pause di vertigine»; «il tempo è mobile limine / anòdino argine del fluire del cosmo»; «Privo di senso il tempo transita / emerge negli eventi per ombre immateriali / si nutre delle cose nella sua dura fame / non è concetto né intuizione pura / senza le cose non esiste affatto / sempre unito alla mente ne rivela il carattere / il nodo e il modo»; «non è durata il tempo / perché l’attimo cessa / nella memoria vivifica distanze morte  // […] l’uomo è la sua stessa angoscia temporale / inorridisce o crede in un eterno Iddio / ondeggia sdrucciolo nello sfavillio dell’ora / in quell’eidetica sorgente simile al lampo / che crea di notte la visione e il tuono». «Nel tempo l’Eterno / sospeso a un raggio / tutto emerge / da fonte di stupore / l’occhio è il tempio e la visione / in uno / l’orecchio è musica / l’odore movimento / la bocca è l’entità d’ardite rose». In questo contesto astorico e consegnato alla voracità del tempo ritornante c’è ancora da chiedersi se la concezione di Celi sia dunque religiosa (cristocentrica) o laica (antropocentrica), per ricondurci al nostro discorso iniziale, e sembra impossibile non dire che ambedue le cose sono vere, nel senso che se Celi denuncia l’assenza (o l’estrema, infinita lontananza?) di Dio, simultaneamente dichiara che senza la nozione di sacro non è possibile un’esistenza. Ecco che il poeta dichiara: «Sillabo il Nome d’ombra / ché non v’è siepe ardente / nel vortice d’assenza»; «ma è già molto sopravvivere al fior / fiorire dei sensi e / all’appassire del Senso», denunciando tra l’altro una sensazione di non appartenenza («Onda-luce racconta il mare // uno col cosmo […] // fossi quello / potessi veramente esserlo / mi placherei»), e ad un tempo rilancia la sfida a trovare questo dio apparentemente sparito: «c’è ancora tempo per stanare / i nonsense» (assenza di senso = assenza di dio, colui che con la sua esistenza conferisce un senso alla nostra). Una concezione del sacro naturalmente larga: «Dio ci concepì in gusci d’echi / e noi sorgemmo da un Ohm estremo / su criniere d’orgasmi / tra le stelle». Alla poesia il compito di conservare la preziosa ambiguità: «la poesia è orgasmo d’acqua santa / preghiera stretta in crune di bestemmia / pianta rovente bagnata l’illusione / che il vento strazia / e il verso ricompone». 

«Hebenon» anno VII seconda serie n. 9-10, aprile-ottobre 2002, pp. 227-229

16 giugno 2002

Indice generale
Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


Per informazioni, si prega contattare la direzione