Vico Acitillo 124
Poetry Wave
 

Recensioni e note critiche
I versi riempiti d'aria di Eugenio Lucrezi
di Antonio Lotierzo


Nel volume, dal titolo francese, ”L’air”,  Eugenio Lucrezi (napoletano, del 1952) raccoglie la seconda produzione poetica, dopo “Arboraria” (1989). Si tratta di sei sezioni creative, alcune delle quali già edite in riviste fra il 1992 e il 2000, variamente rivisitate, raffinate e riaggregate con una logica ferrea di composizione, che costituisce il primo dato su cui riflettere. Lucrezi parte dal suo amore per la musica, blues urbano semmai ispirato dall’ascolto del possente timbro di J. Lee Hooker, che gli ha adattato in musica il suo sodale Alfredo Vitelli, e,  procedendo ad un’operazione di mescolamento alchemico, intona, dopo versi inglesi, direttamente una discesa verso il fondo, che si fa, in napoletano, “scennendo scennendo”, allorché il bluesman (o poeta), entrato  in un supermercato, s’accorge che la scala mobile lo sta portando –vista la sua distrazione di lettore– (“leggendo leggendo | ‘o mbruoglio m’ ha cecato”)  verso l’inferno sotterraneo, in cui si continua  “a sprofondà ccà sotto” e, come Dante, ci si interroga “commm’aggio fatto a scennere” in una selva tanto oscura in cui è confinata la nostra impotenza alla redenzione. Ma il tono generale è leggero, mai tetro, e le rime, spesso alternate, offrono una godibilità che culla come i blues.

Ancora più fruibile il napoletano della seconda canzone: “ ‘O friddo”, in cui i sembianti  non riescono  a comunicare  per il freddo ed anche  una bianca luna trema come la “voce d’ ‘a notte” finché non ci si decide a prendere il secchio e andare a cercare carbonella da accendere. Se non che, per rivelare una tecnica costruttiva, Lucrezi scrive   “mò  acchiapp’ ‘o sicchio, | ‘o zompo ‘ncuoll’ a ccavallo, | faccio nu ggiro”, che  sarebbe scena stregonesca se, in esergo, non avesse  riportato il brano ispiratore, da un Kafka che scriveva “Carbonaio, dammi un po’ di carbone. Il mio secchio è così vuoto che ci posso cavalcare. Appena potrò ti pago“.   Si comprenda allora come l’ispirazione di Lucrezi adotti materiale vario, scrittorio e musicale, per produrre un aggiustamento, una ripresa creativa, in cui s’impenna la  sua bravura compositiva, che, con tecnica  post-modernista, fa nascere da testi altri testi. Un procedimento che sembrerebbe simile alle matinée o ai rap di Arbasino, se non fosse che Lucrezi appare assolutamente meno barocco ed anzi tendente all’essenzialità, affidata  a versi brevi  e qui caricati dalle tronche (“ cercà; scarfà; turnà; atterrà”).

In lingua le sette ottave, più un verso finale,di “ Paul e Kaspar” fiorite per sinapsi da un brano diaristico di Klee, visitatore di Pompei e oltre, fluiscono con ridenti e rapidi settenari, in cui si ricuce la visita con il “grazioso calesse”, in uno spruzzo d’ironia, che coglie i futuri intellettuali che “si addormentano brilli | su due letti tranquilli”, ma Klee già “sogna il gelido ardore | di un geometrico amore” , che è, forse, autoritratto ossimorico dello stesso Lucrezi.

Sei le poesie della sezione “Lena di morto” , a memoria di Leopoldo Tutino che proteggeva i boschi, in cui appare una Napoli svariata, dal Vomero ai Camaldoli, fatta di scale e di tufi, in cui si snoda l’essenza d’una testimonianza  misconosciuta. Premettendo una nota compositiva, Lucrezi si chiede: ”Mentre scrivevo questi versi mi domandavo: è possibile parlare senza tristezza della sconfitta e della sofferenza, addirittura della morte? E’ possibile parlarne con allegria?”,  che è domanda difficile e terribile a cui, però, hanno dato risposta positiva Hölderlin e Delio Tessa (e Manzoni). E’ in quest’ottica che vanno interpretati i  delicati testi, per lo più quartine, spesso con rime baciate, in cui il sentimento del tempo si sposa ad una sobria esposizione del paesaggio, fra cui si muovono i derelitti personaggi che si godono l’emarginazione come una benedizione.

La “Cronachetta d’ottobre”, che è del 1992 e sembra un commento alla situazione israeliano-palestinese, è la storia epica, l’intarsio drammatico di una difficile convivenza, in cui nessuno è disposto a cedere nulla e in cui ogni carità umana è spenta.  Con lucidità premonitrice, Lucrezi opera delle “descrizioni” (come Roversi?), avvicinando testi d’un millennio addietro a commento d’eventi contemporanei, con le  vicende di  Ciuffo di pelo, i profeti parolai e i “ cari fratelli” che non riescono a concordare una convivenza. Anche qui storia, ironia e descrizioni  vengono, con sapienza , mescidate per creare un testo innovativo e autonomo.

Ironia e scherzosità (anche macabra) attraversano “I leoni del Ruanda”, in cui dietro gli animali possono, come in una filastrocca o in una favoletta latina, nascondersi  le vicende degli africani e le loro difficili relazioni con la modernizzazione controllata dai paesi ricchi.

Nel  racconto lirico “Per forza di caduta”  apprendiamo il clima adolescenziale nel quale si consumò l’esperienza napoletana di Lucrezi, e troviamo anche la chiave per comprendere meglio il suo rapporto con la musica e il blues, qui James Senese e le altre musiche “toste” amate da un gruppo di giovani che la vita provvederà a  mortificare (il personaggio Sergio viene descritto dalla fluidità onnivora alla decadenza, dieci anni dopo, per  cure con psicofarmaci). Qui Lucrezi opera una potente sintesi generazionale, arricchita dalle considerazioni su Andrea  Zanzotto, che funge da catalizzatore delle sinapsi e il cui “ Idioma” è  variamente assunto come  manifesto e poema d’un linguaggio che tenda alle origini universali, prebabeliche, e che si configga con forza nell’ “ovile o utero” , nel dialetto del borgo che è lallazione (ma che ha indubbie analogie con i mutismi dell’idiota e  anche  con le privatezze totali del linguaggio autoreferenziale del personaggio Sergio).

Le ultime sei poesie della sezione “ ‘O muorzo d’ ‘a crianza”, in napoletano, sono pure quelle che danno titolo all’opera, perché qui  è la celebrazione dell’aria, che quasi sempre Lucrezi compie presentandoci delle traduzioni  dai francesi,  qui  Arp e Ponge.  Lucrezi coltiva il genere dei “ papiers dèchirès”, delle carte scritte e strappate da altre carte o delle poesie visive su materiale creativo informale, riprende formule del dadaismo ma soprattutto opera una selezione, un adattamento che è come la variantistica per il folclore, costituisce il punto innovativo della ricezione e il suggello che l’artista pone sull’utilizzato materiale d’ altri. Ed ecco apparire “ll’aria”, che  è l’arché originario da cui emerge anche il linguaggio e la possibilità di comprensione universale.  Anche qui il napoletano prescelto è agile, ritmico, elencatorio ed accumulativo, con lacerti di preziosimi.  Lucrezi ha selezionato per noi un’immagine surrealista: “na rosa dint’a n’uovo”, che mi pare  un fiore nato da embrione vivente, una metafora al contrario  e molto bella, ripresa da un Arp che non avremmo ricordato, come pure “lacreme dint’ ‘e pprete”, nuova e più che ossimorica alchimia oggettuale. Che è, infine, la divina “alchimia  del verbo”,  con cui si crea una realtà altra, una vita nel linguaggio, fondata su di una forma  che sa di alessandrinismo postmoderno e in cui un utilizzato plurilinguismo testimonia una digestione di amati libri. Altrove ecco apparire anche la tematica del mondo alla rovescia : “nu cuniglie se magna | nu cacciatore” e non siamo nel mondo di Alice. E’ semplicemente la poesia come ordine stringente ma anche come capovolgimento delle logiche attese e invenzione di un mondo che si accontenta  di vivere nelle parole e che si offre al lettore con ambiguità perché egli possa operare quelle connessioni che costruiscono il senso di lettura ed il piacere di aprire un  compiuto libro di poesie.

 
12 giugno 2002
Indice generale
Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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