Vico Acitillo 124
Poetry Wave
 
 

Recensioni e note critiche
Il centauro amoroso di Enrica Salvaneschi
di Sandro Montalto


«La clessidra», anno VI n. 2, ottobre 2000, pp. 114 - 132
Un estratto del presente saggio è stato anticipato su «Hebenon», anno V seconda serie n. 5, aprile 2000, pp. 5-18, seguito dal poemetto inedito della Salvaneschi Psicomachia

Si potrebbe impostare un discorso su Enrica Salvaneschi a partire dal preteso antagonismo tra poesia e filosofia, cercando di dimostrare come il percorso poetico dell’autrice sia tutto teso principalmente ad una realizzazione della poesia filosofica. Ma il binomio poesia-filosofia sarebbe, riguardo alla Salvaneschi, riduttivo: la studiosa, che è stata docente di “Semantica e Lessicologia” ed ora lo è di “Letterature comparate” all’Università di Genova, città dove è nata e vive, ha uno spettro vastissimo di interessi che, oltre alla filosofia, vanno dalla glottologia allo studio delle lingue e letterature antiche, medioevali e moderne, ai problemi del significato e dei modi del significare. Oltre ai volumi che citeremo tra poco fanno fede una sessantina di studi sparsi in riviste, volumi miscellanei, annali ed atti di convegni, oltre a note critiche e traduzioni, che testimoniano indagini che vanno dal Prometeo di Eschilo al Cantico dei Cantici, da Pindaro a Romano Melodo, dal biblico Qohélet ai testi arabi e medio-irlandesi, dalla lirica petrarchesca e leopardiana a quella di Shelley e Lawrence, dalla narrativa di Virginia Woolf a Starobinski e alla poesia contemporanea. 

Per tracciare un quadro dell’opera della Salvaneschi inizierò con il proporre l’elenco delle sue pubblicazioni in volume. Procederò poi ad una trattazione più particolareggiata, che in questa sede si limiterà alle opere letterarie:
 

OPERE LETTERARIE
Così (Book editore, Castel Maggiore BO, 1990)
Con moto restìo (Coliseum, Milano, 1992), titolo editoriale sotto il quale sono raccolti Teoria, sequenza di pensieri in prosa, e Metope. Trattato di poetica e di solitudine, poemetto teoretico.
Centauri? (Book editore, Castel Maggiore BO, 1992)
Il Tu e il Nulla (Book editore, Castel Maggiore BO, 1994)
Catalogo e metamorfosi (Campanotto editore, Pasian di Prato UD, 1996)
voci (all’antico mercato saraceno, Carbonera TV, 1998)
Psicomachia (Book editore, Castel Maggiore BO, 1998)
Cleptomania («Hebenon» anno V seconda serie n.5, aprile 2000)
Poesia, Gazebo, Firenze 2000

SAGGISTICA

Il sistema semantico del “tempo” in ebraico biblico (Pàtron, Bologna, 1979)
La follia di Suibhne (Rusconi, Milano, 1979; traduzione di Umberto Rapallo, a cura di Gianna Chiesa Isnardi, nota critica di Enrica Salvaneschi)

SUGKRISIS - Testi e studi di storia e filosofia del linguaggio religioso in cinque volumi (Il Melangolo, Genova, 1981-1986; a cura di Carlo Angelino e di Enrica Salvaneschi)

Aristotele, La “melanconia” dell’uomo di genio (Il Melangolo, Genova, 1981; a cura di Carlo Angelino e di Enrica Salvaneschi)

Cantico dei Cantici. Interpretatio ludica (Il Melangolo, Genova, 1982; traduzione e saggio interpretativo di Enrica Salvaneschi)

Jean Starobinski, Le parole sotto le parole - Gli anagrammi di Ferdinand de Saussure (Il Melangolo, Genova, 1982; postfazione di Enrica Salvaneschi)

“Briciola”. Storia fantastica di un’idea (Il Melangolo, Genova, 1990)

Shanfara, Il brigante delle sabbie (Book editore, Castel Maggiore BO, 1993; a cura di Younis Tawfik e Roberto Rossi Testa, prefazione di Enrica Salvaneschi)

Ritorni di parole (Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1995)

“Gerusalemme liberata”. Utopia per un regista (ETS, Pisa, 1996)

Un’altra precisazione che si rende necessaria è che il particolare atteggiamento della studiosa nei confronti dei testi e dei loro autori, che privilegia la messa in luce di collegamenti insoliti e che non disdegna talvolta l’irruzione della fantasia o della fascinazione, o la testimonianza di autori apparentemente eterogenei, porta alcuni volumi (Catalogo e Metamorfosi e Briciola, ma anche ad esempio i recenti studi Mrs. Lot [1] e Meditazioni di una vittima rifiutata [2], Gita a Cariddi: ordine o disordine? [3]o anche Scherzo per Isabella [4]) ad essere collocabili in una zona intermedia, a cavallo tra critica e creatività, sempre fermo restando il rigore scientifico di questi lavori. Da questa constatazione sorge il sospetto che non esista muro divisorio fra opere letterarie e saggistiche, in quanto tutte realizzazioni di un desiderio di approfondimento ed indagine, ed eguale testimonianza di passione ed interesse reali, capaci di andare ben oltre la lucida scorza di gratuiti utilizzi di lingue straniere o antiche (con le quali da più parti purtroppo si “contamina” molta critica e poesia contemporanea) o il sussiego proprio specialmente di chi opera dietro ad una cattedra universitaria. Né l’autrice è simile a quel Peter Kien del romanzo di Canetti, “l’uomo dei libri” che vive immerso nella lettura per evitare le sirene del mondo fino a incarnare la metafora del delirio autodistruttivo e che si vota alla morte nel rogo immane dei suoi centomila libri; e meno ancora è assimilabile al personaggio del racconto L’uomo con molti libri di Hesse, che si rifugia nella lettura per vivere in stretto rapporto con gli spiriti più nobili senza esporsi alla casualità degli incontri della vita. Lei sa benissimo (e nei suoi scritti è evidente) che la vita passa attraverso i libri ed i libri sono intrisi di vita nel modo più nobile e più vero, sa bene che tutto si riconduce a quei «pochi argomenti» “veri” e “urgenti” che l’uomo ha «nella sua faretra», sa che l’uomo «non ha argomenti al di fuori della vita - ciò che è e ciò che non è. Per questo, tutto quanto ha detto e va dicendo, straordinariamente si assomiglia; e straordinariamente, ogni volta, è diverso - talvolta è nuovo» [5].

E’ la Salvaneschi stessa ad accennare a questo nell’introdurre un suo saggio, con un discorso generalizzabile ed esemplare: 

Può succedere che gli etimologi, anche i migliori, si congedino con stizza dalle stranezze semantiche; simili, da un certo punto di vista, a quel signore cremisi che è personaggio de Le petit prince. Intento a contare, tra un numero e l’altro ripete: “Je suis sérieux, moi” e aggiunge: “Je n’ai pas le temps de flâner” (ch. XIII). La citazione, bisogna rendersene conto, è solo in parte appropriata; in gran parte è irriverente e ingenerosa. Nessun dizionario, etimologico e non, sarebbe forse mai stato compilato se il suo autore si fosse concesso il lusso di “flâner”, di “errare”, “bighellonare” come noi ora facciamo; e tuttavia, questa “flânerie” talora corregge la seria, catafratta consegna del dizionario: lo fa provocandola, talora infrangendola, purché sempre si tenga presente che tale infrazione, provocazione, può esistere solo perché il dizionario preesiste. [6]

Per questa passeggiata (nel senso più leggero, di promenade partecipe e discreta in stile musorgskiano) fra i testi della Salvaneschi propongo un titolo che è giustificato dalla ricorsività del centauro come figura simbolica e dal sagomarsi in margine ai suoi versi di una vicenda d’amore, per quanto sui generis, nell’accezione principalmente dantesca («donne e donzelle amorose...») [7]. Inoltre il centauro è figura che compare non poche volte in Dante (Inferno, Canti XII e XXV), autore che nell’opera letteraria della Salvaneschi è spesso visibile in filigrana, e ne parla anche Orazio (nell’Ad Pisones, o Ars poetica) il quale attribuiva ai poeti nientemeno che la capacità di porre cervici equine su corpi umani, che era poi - diciamo così - la corretta ricetta per generare centauri. La figura si ripropone poi in Folengo, Ariosto, D’Annunzio e molti altri, fino a Pavese e oltre, attraversando tutta la letteratura. Ci rincresce solo sapere che il nostro accostamento dispiacerebbe sicuramente a Platone, secondo il quale

i centauri appartengono al mondo dell’assurdo, di ciò che non ha posto, e quindi non deve avere posto, nella realtà ideale dell’esistere; [...] Insieme con i Satiri, i Centauri sono prototipo e riferimento dei sofisti, che vengono definiti “belve versatili e impotenti” (Pol. 291 a), “corifei di fantasmi”, “mimi”, “incantatori” (ib. 303 c). Votati a una continua, incostante e ingannevole mutevolezza, i sofisti non sono maestri di arte politica, bensì di sedizione. Così nell’etica: i centauri [...] vi divengono l’esempio di problemi falsi, che distraggono dal “conoscere se stessi” per allettare l’attenzione su uno pseudo-mondo esterno e non conoscibile, su ciò che non conta e non è, su vuoti artifici di favola che solo esigono una “saggezza selvaggia” (Phaedr. 229 e)» [8].

Ma osserviamo più da vicino la produzione letteraria della Salvaneschi, precisando subito che la successione della pubblicazione dei volumi non corrisponde alla cronologia della composizione dei testi in essi raccolti. Adottiamo però nella nostra esposizione un metodo cronologico, per semplicità e perché il presente lavoro si occupa di individuare temi conduttori e non si interessa dei problemi di datazione. 

Il suo esordio poetico avviene dopo quasi vent’anni dal suo esordio come studiosa, e si potrebbe supporre la sua opera poetica come un’entità in qualche modo conseguente alla sua attività di ricerca, quasi succube e magari votata ad uno sterile intellettualismo. L’autrice stessa però non considera la sua produzione letteraria ancillare rispetto a quella critica, anche se ha pudore di definirsi una “poetessa” (e del pudore si parlerà più avanti). Ricorda volentieri [9] un aneddoto che riguarda Baudelaire: l’editore aveva proposto un frontespizio nel quale sotto al titolo Les fleurs du mal compariva la dicitura Poésies.Al che Baudelaire scrisse: “Que penseriez-vous de supprimer le mot poésies. Quant à moi, cela me choque beaucaup”. 

Il volume di poesia Così, come una nota al titolo chiarisce, «propone un legame di coerenza interna» con l’opera in prosa Teoria, al tempo della pubblicazione di Così ancora inedita, una «sequenza di pensieri che nel loro dispiegarsi musaico siglano con la parola “così” una disincantata e lapidaria definizione della vita». La raccolta costituisce l’esordio poetico dell’autrice, se si escludono alcune poesie precedentemente pubblicate sulle riviste «Galleria» e «Punto d’incontro». 

La prima cosa che occorre evidenziare è la totale immersione dell’autrice nella tradizione poetica italiana (utilizziamo per semplicità questo termine così vago). L’attenzione alla metrica innanzitutto: la distribuzione della versificazione in sestine (vedi le poesie Farfalla, L’inassoluto), l’uso frequente dell’endecasillabo (ancora Farfalla, Abito, Fiore di Bisagno, Oleandro, anche Pietre nella sua metrica spezzata, oltre a sequenze di endecasillabi sparse), le attentissime, sempre piacevoli e non di rado esuberanti rime, sovente interne e rimalmezzo («nata ancora, mia sovrana, rima spinata», da Ballata di una fata). Fitte poi le reminiscenze dantesche: l’uso dell’aggettivo, il «contrappasso venale della vita / a montagna d’eterno, amato tutto» di L’inassoluto, il «Virgilio cristiano, / in penombra sospinto» di Abbraccio il mondo, l’«epifania di medio evo» e l’«inangelicata» di Dimensioni; si può arrivare fino a molti particolari come le frequenti «pietre» (che danno anche il titolo all’ultima poesia della raccolta, che termina con un appassionato «Sono qui: lapidami, iddio tesoro»), l’«arena» o l’«avorio» di Al di sotto della mischia, fino a quella «mentita chioma assimilata al grano / frusta frustrante a languore di morte» di Farfalla, che secondo Paolo Valesio [10] risponde ai danteschi «S’io avessi le belle trecce prese, / che fatte son per me scudiscio e ferza» dalla canzone Così nel mio parlar voglio esser aspro - canzone che (aggiungo) propone anche un ponte con il titolo della raccolta - nonché alla «breve parola e greve / incinta di mistero ed evidente / palmare e oscura come l’esistenza, / quando la mente ancora e non ignava, / cerniera vergine tra inverno ed eden / - il giudizio e la gioia - vi s’attenta, / nel purgatorio del suo sogno apprende / neutra l’eternità». Si confronti questo passo della Salvaneschi con il termine della canzone dantesca: «Canzon, vattene diritto a quella donna / che m’ha ferito il core e che m’invola / quello ond’io ho più gola, / e dàlle per lo cor d’una saetta: / ché bell’onor s’acquista in far vendetta». Di qui la conclusione della Salvaneschi?: «Mai per il mondo pascoli di grano / a vilipesa donna senza drago? / mito assurdo, mio tu, pròteo di morte».

Si potrebbe proseguire nel gioco delle reminiscenze e sentire nel «ne ho reciso pure le radici / con razionali forbici» di Fiore di Bisagno alcuni ovvî echi da Montale, così come si potrebbero sentire altre arie montaliane nel «rivo», nell’incipit di Moscone in estate, nella fine di Tronco e in un po’ tutta la poesia Oleandro. Fa una breve comparsa anche un possibile Eliot, in una reinterpretazione dell’incipit di Terra desolata: «mio aprile affranto, burocrate virile rassegnato» (da Dimensioni). Che dire poi delle similitudini del già citato Moscone in estate con The Raven di Poe, o dell’intersecarsi delle esperienze di poetessa e studiosa nella poesia Abbraccio il mondo, nella quale il riferimento al “farmacós” riporta direttamente al commento della Salvaneschi a Il brigante delle sabbie (vedi bibliografia) [11]? Molte sono ancora le possibili osservazioni ma i riferimenti appartengono in gran parte al comune bagaglio culturale dei lettori e non è forse necessario parlarne in questa sede.

Tipiche molte espressioni che l’autrice usa senza la “diffidenza” che invece sembra caratterizzare molta lirica contemporanea («presagio dorato», «opale», «fronde», «rovi e fogliati arbusti») - è rintracciabile addirittura una concessione al minimalismo: «I trucioli di gomma / rimasti sul mio tavolo intrecciati / l’uno all’altro - rondini / nel volo in fiore contro un cielo bruno» (da Animismo) - nonché una manifesta attenzione alla cultura popolare (o pseudo-popolare) che si manifesta nell’esergo della poesia Tronco («C’è un vecchio detto: / è amara la corteccia») [12], nel «rimato proverbio» di Moscone in estate e nell’incipit di Al di sotto della mischia.

C’è infine da notare la presenza di momenti che sembrano rievocare il Cantico dei Cantici, che dalla Salvaneschi è stato magistralmente tradotto e commentato (appare infatti ovvio che il termine “tradizione” va in questo caso delimitato da margini amplissimi nel tempo e nello spazio). Leggiamo dalla poesia L’eternità: «guardo il tuo volto, bevo / la tua persona nella mia pupilla / sei tu il pascolo estivo del mio occhio, / ma deporti non posso dentro me / - e il vuoto imbuto solo / solo al tuo vino anela». Leggiamo ora alcuni passi del Cantico: «Come le tue carezze sono belle, mia sorella sposa, buone oltre il vino» (4,10), «Aprii al mio amato, ma lui si dileguò, trascorse; al pascolo della sua parola, uscì la mia vita» (5,6). E non si può tralasciare la metafora sessuale degli ultimi versi, anche alla luce di quanto la Salvaneschi scrive nel suo commento al Cantico:

“il vino è indocile, fremente la bevanda; non è saggio chi ne è rapito” (Prov. 20,1). Proprio su tale “rapimento” si accentrano nel Cantico simbologia e tematica: non per nulla la formula di abbandono ripetuta a 2,6 e 8,3 - “la sua sinistra sotto il mio capo e la sua destra mi abbaracci” - segue nell’uno e nell’altro caso il tema dell’ebbrezza imposta ed elargita dal vino amore. Una proiezione specificatamente sessuale del vino risalta del resto con evidenza non solo dall’ovvio episodio di Noè, che “agricoltore, fu il primo a piantare la vigna. / Bevve vino, si ubriacò e si denudò nella sua tenda” (Gen. 9,20-21); anche la vicenda delle figlie di Lot, che compiono incesto col padre dopo averlo ubriacato (Gen. 19,32-35), configura il vino come strumento che stordisce, intermediario di un rapporto sessuale proibito [13].

Altro esempio possibile, tralasciando quelli che richiederebbero uno scavo troppo profondo ed ardimentoso, la poesia Dimensioni: «E il cuore allora, / la gola di dolcezze disattese, / tu pascoli tra i fiori, mio alato amato ancora» richiama almeno un paio di passi del Cantico: «Come un melo fra gli alberi della selva, così il mio amato fra gli uomini; alla sua ombra con voluttà riposo, e il suo frutto è dolce al mio palato» (2,3) e «Il suo palato è dolcezza, tutta la sua persona voluttà» (5,16). 

Diversi i collegamenti possibili fra questo ed il successivo volume di liriche: ad esempio la lirica Inedia nella quale assistiamo alla “metamorfosi” di una ipotetica donna, con le sembianze ora di Isotta o di Griselda, ora di Desdemona (e che come Desdemona amerebbe morire), lirica che si collega a Invece (ne Il Tu e il Nulla), della quale parlerò trattando della seconda raccolta. 

Resta che fin dalla sua prima prova la Salvaneschi si rivela un’autrice capace di “dare un nome alle cose”, virtù che caratterizza il vero poeta. Si leggano certe meditazioni in versi che sembrano migrare dalla studiosa alla poetessa: «polisemia infinita della vita, segno indiscreto sole / gomitolo di luce e di messaggio / quando nel tratto astrale che seduce / l’impatto consuntivo e redivivo / pur teso di timore e nel rumore si appaga affanna schiavo, / riduce il segno ad uno fra i suoi raggi, / [...] Regola ricorsiva della vita, / nuvola uguale entro diversa aurora - / tersa e vibrante nel significante / il cui senso infinito quale univoco affila, / dono a coltello del comunicare / la verità parziale dell’abbandono altrui». Siamo in presenza di una “semiologia dell’esistenza”, con “definizioni” talvolta splendide («l’appretto dell’amore», «dal detersivo della sofferenza / dalla centrifuga indifferenza», «l’universo è stretta funzionale», «il silenzio è telefono silente»), ossimori sfiorati, l’occhio vigile da una parte sull’immediata realtà («computer», il paragone fra Cartagine e «l’asfalto divenuto / cancerogeno ardore» quando «Hiroshima fu Sole ottenebrando / il Sole su Hiroshima / [...] Sale sulle rovine cartaginesi: / tossina sul ricordo della mia mente. / Sole di terra nello sfacelo della materia: / febbre di sole sulle macerie dell’elianto», la collana di corallo che diventa «monile radioattivo / madrepora letale» nel ricordo di Bikini) e dall’altra sulla letteratura che non è mai in antitesi ed ha già vissuto tutto (vedi Inedia), gli episodi ricchi di figure retoriche abilmente camuffate (si vedano ad esempio i tautogrammi accennati in Moscone in estate). Si noterà come la raccolta contiene - in una levità persino incredibile al cospetto della sua ricchezza - tutto ciò che può farne un autentico libro di valore. 

Il 1992 è l’anno delle pubblicazioni centauriche.

La seconda opera nella cronologia delle opere letterarie è Con moto restìo, volume dal titolo editoriale nel quale sono pubblicati Teoria e Metope. A Teoria si è già accennato sopra. Metope è, invece, secondo la nota editoriale al volume, un “poemetto teoretico” (eloquente il sottotitolo: Trattato di poetica e di solitudine). La serie di cinquanta meditazioni che costituiscono Teoria è l’altra parte del centauro, la cui prima metà erano le poesie in qualche modo amorose di Così: qui l’analisi viene a completare il quadro di un atteggiamento assetato di comprensione. La scrittura è compatta ed i passaggi sono strettamente legati tra loro, il cambio di registro o di ottica non avviene sempre in corrispondenza del cambiamento di capitolo, e la lettura si presenta come lo scorrere regolare di un fiume silenzioso ma sempre visibile, mentre attorno ad esso il paesaggio è continuamente cangiante. Questo fiume rappresenta il tema della «solitudine intesa come condizione necessaria e insufficiente, male che si fa unico bene, e naturale serietà di ogni poesia» come recita la nota editoriale. In un reale procedere musaico il lettore non mancherà di notare i continui riferimenti agli antichi o ad autori moderni più o meno evidenti, anche negli stessi titoletti («Palinodia relativa», «La monade», «Apáte», «Centoni», «Gli eoni», «Pallade e Proci», ecc.).

Quella necessità dell’esemplificazione che già si presentava nella raccolta Così si manifesta in due capitoletti e nella fondamentale cinquantunesima meditazione, intitolata appunto Così, che oltre a riferire di alcuni ispiratori e numi dell’opera conclude nientemeno con la seguente frase: «Trovata la definizione della vita: così». «E’ nulla la tua vita, se non diviene esempio. Nulla se non puoi citare, a tuo commento e suo, i versi di un poeta» (così l’esito di un monologo antico), ma anche «è l’esempio un altro aspetto, corollario forse e coronamento, dell’analogia e definizione: modello e modulo, si sfronda di individualità, per offrirsi. [...] Nell’esempio, l’individualità è tanto violata quanto accessoria e irrisolta». Diventa in questo modo importante anche l’idea greca di memoria: «catarsi e idealizzato paradigma».

Metope è un superbo esempio di forma chiusa: strutturato in cinque canti ognuno diviso in stanze di nove versi, fatta eccezione per l’ultima stanza di ogni canto che è di dieci versi, prevede una rima ABCDEDCBA, con versi di quindici sillabe ed il primo verso della stanza successiva rima con il quinto della precedente. Vi sono casi in cui lo schema metrico presenta alcune peculiarità, ad esempio la stanza IV, 6 in cui la rima è ABCDEFC’BA: C’ rappresenta una rima ipermetra essere:messe. Talvolta infatti si fa rimare sterpi:erpice, sterile:crateri, cerco:Ercole, individuali:crisalide. F rappresenta una rima eremo:avere. Vi sono infine versi in cui la prima parola rima con l’ultima: «clangore di raggi o smorzato, soffuso nitore». La tendenza all’allitterazione è molto forte: «vita asservita», «su averni di tèrmiti in tetre, tarpate avarie», «Tale, dolce sale, immite miele, fiele e prestigio», «E tanto più vivo, vitale, e duro a domare, / intrepido assale l’assedio nell’urto impudico». Si tratta indubbiamente del testo in versi più difficile della Salvaneschi: il bagaglio culturale dell’autrice traspare qui, anche se sempre trasfigurato e fuggendo la tentazione dell’esibizionismo, e la sua ombra non abbandona mai i versi, sempre di alto livello poetico ma talvolta come affaticati. Non è però la fitta trama di rimandi che appesantisce la lettura, bensì un “tono” che ha dell’enciclopedico. D’altra parte occorre considerare che la scelta stessa della forma chiusa conferisce ai testi un senso di soffocamento che a noi lettori disabituati può apparire eccessivo [14], ma che è tuttora una scelta che può portare ricchi frutti. 

La filigrana del sentimento amoroso che anche qui è presente sembra lottare con altre nozioni che si finge siano in lotta con essa, e ci vengono concessi squarci lirici: 

non sanno le nuvole interpreti di fantasie,
oblio di memorie e di simboli al cui crespo velo
si dànno guardate e pensate, percorse le sorti
dell’uomo e poema, travaglio di un’anima offesa
dai nodi insistenti di dure finzioni d’amore.

Poco dopo il registro non è più lo stesso, la fascinazione resta ma la causa è diversa:

Se il vivere spogli d’amore somiglia a vorace
prigione e infelice squallore di pavidi scempi,
poi, quando l’amore raggiunge, l’incanto recede.
Si lede l’incanto pensato, presenza impotente
a cui si assegnava virtuale ogni fibra felice,
a cui si cedeva, in un credito senza riserve
di mente e di corpo, ogni merito di risanare
la cara ferita che il vivere acerbo inferisce.
Negato il rimedio d’amore che possa lavare
la macchia vitale erosiva che guasta e che ferve,
pur senza saperne spiegare ragione o radice
restiamo in prigione d’amore, macchiata la mente.

In altri punti il legame con la precedente (e seguente) opera si stringe:

Nel frigido azzurro del cielo spumavano piene
in grappoli bianchi e giganti - centauri d’infanzia -
le nuvole accolte in un sinolo sull’orizzonte,
caduco formarsi e mistero su cui tuttavia
spiccavano bianche e diverse, ad uguali intervalli,
le statue di marmo elevate in discreta teoria
a ornare un’altana in estatico, statico fronte.
Contrasto di bianco su bianco, il pensiero vi stanzia,
presagio di luce e di morte, le proprie sirene.
Se la solitudine è questo reciproco plagio
del Tu e del Nulla - geranio nero, ortensia e ortica -;
se soffrono i pensieri come gemme, abito futile
ed arbitrario dei rami spogli - ma senza il quale
non c’è bellezza nei rami spogli: sola sapienza
ci resta e fonda, nel mondo uguale del nostro male,
la solitaria dei posseduti veste inconsutile.

Dunque il tema della solitudine:

Così è solitudine il primo valore smarrito,
recinto perduto da sempre, dall’eden di pace
caduti per sempre nel mondo del vizio d’amare;
è la solitudine l’unico stato sotteso
a tutti i felici infelici, noi sotto la luna.
E’ un vuoto divino dai vivi subìto e offeso,
creduto castigo, deserto di magro squallore
che ognuno si affanna a colmare di un bosco mordace,
fugace, imperfetto rimprovero al bene smentito.

Sull’intrecciarsi ed il combattere di amore e solitudine, si vedano le notevoli stanze II,8-9-10 e IV,11. Vi è un combattere di sentimenti opposti che ci rimanda a Shakespeare (Sonetti, LXIV), quando scrive di colui che piange perché possiede ciò che teme di perdere.

Con moto restio è un libro scostante ed ammaliante al tempo stesso, come una persona che abbraccia una tua fotografia senza degnarti di uno sguardo mentre sei lì di persona: partecipi in qualche modo al sentimento, ma nello stesso tempo te ne senti escluso. Come un vetro a specchio, si sa di entrare in un mondo che, per quanto ricco, nobile e in qualche modo monstrum, è pur sempre privato ed impone un rispetto fatto di discrezione mista ad un po’ di soggezione.

Con moto restio è un libro centaurico (prose e poi versi accostati) con testi non centaurici (anche se in Teoria notiamo che la scrittura inizia a “centaurizzarsi” all’interno di due meditazioni). La seconda pubblicazione del 1992, fatta invece di testi centaurici, è Centauri?. Il libro è topico: il titolo è emblematico e l’introduzione dell’autrice è quanto di meglio riassuntivo sia dato di avere. Penso sia bene quindi riportare passo per passo le sue parole per chiarire cosa sia questo libro, ossia «il tentativo di circoscrivere, di parafrasare l’approssimarsi della vita, il suo tendersi fra opposti sempre contaminati l’uno con l’altro, nella chiarezza spietata dell’enigma - quello che Proclo, con formula efficacissima, definiva “male colorato di bene”». Il centauro prosa-versi è simbolo di «reciproco commento e polemica, diverbio fraterno e irrimediato». Il riferimento alla tradizione classica (Petronio, Seneca, Boezio) e alla Vita Nova, alla cornice del Decameron, a Gli eroici furori è chiarito dall’autrice stessa, che ci tiene a mettere in luce come anche il fascino di Le mille e una notte «risieda in tanta parte proprio nella citazione sistematica dei brani poetici, che l’evento elevano a esempio», e come occorra non dimenticare i romanzi celtici o Lewis Carroll, oppure il Leopardi del X capitolo del Parini o del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie. Se i centauri sono «un archetipo privilegiato e prevedibile per dire ciò che è duplice e uno», vi è però un altro aspetto più inquietante: «i Centauri propagano dall’antichità all’attualità un possibile segno del non-essere: inaudita eco saturnina nella vincente giovialità del mondo, i piovosi figli della Nuvola del mito classico divengono qui labili forme della parola; [...] Il diverbio e binomio di prosa e versi non è dunque che il riflesso in superficie, l’espressione e maniera, di questo diverbio ulteriore e creativo disagio, monologo in due; l’approssimazione vitale di cui si diceva figura e sfigura l’essenza centaurica» [15].

Il volume presenta quindi sei testi (1979-1984) che fanno uso di questa tecnica allo scopo di indagarne alcuni aspetti. Ne Il distacco «la distinzione tra testo originario e testo tradotto [...] viene screziata, smussata, e pur proposta come il cuore del cimento, come ragione di un commento la cui esegesi rifiuta ogni ruolo subordinato, caparbiamente ponendosi allo stesso livello del poema che tuttavia l’ha generata» [16]. Nel “colloquio” Per se una «la parte prosastica, traduzione immediata di un celeberrimo passo platonico, è sistematicamente introdotta da brani in versi, il cui concetto conduttore si affida alla nozione di persona così come la definiva una stupenda etimologia medioevale, quasi solipsistico contrappasso al platonico pas de deux, pas de dieu». «Persone e parole non sono poi regolate da diversi destini, da norme dissimili: una simile imprevedibilità regge le loro costanti, i loro olocausti, le loro frustrate-attuate esigenze; così l’esempio di Nost-algeia, “dolore del ritorno”, pone a proprio contrasto costitutivo il forzoso procedere e l’attraente tornare - ovvero, la progressività ineluttabile e la regressività ambita del discorso». Uno studio sull’importanza dello spazio bianco («radura che apre la riga») nella struttura di un testo poetico, sulla convenzione della maiuscola che segna l’inizio del verso e sullo schema ricorsivo, «norma di equivalenza con cui la poesia dà forma al discorso» [17]. Noto di passaggio che la poesia che apre il discorso di Nost-algeia inizia con un ormai abituale «Così». Fuori e sotto si rifà al gioco infantile della conta, la cui immagine stilizzata «diviene tramite a un tentativo di linguaggio quasi transmentale, nella memoria di una delle aspirazioni più ardite e fraintese e frustrate del formalismo russo, nel debito imposto a ciascuno di noi da quella generazione che pur “ha dissipato i propri poeti” [18]: l’ordine degli elementi costitutivi vi consente una libertà plurima - ma rigorosa a un tempo - di associazioni, come in una polifonia scabra ed elementare che attenda, per completarsi e liberarsi, l’avallo di una partitura dichiaratamente mèlica». In Il novissimo e il dato si analizza il problema delle ragioni seminali di un testo: la disposizione dei testi che compongono lo studio «inverte la sequenza cronologica in un ordine che i latini avrebbero chiamato praeposterus: all’occhio del lettore, cioè, l’effetto - il testo - viene presentato prima dei fattori che hanno in parte presieduto alla sua nascita». Lo studio vuole essere una critica alla nozione di causa, «a favore di altre nozioni, artigianali e più umili, come quelle di contatto, di scarto, di simpatia: alla fonte si preferisce la risorgiva». In Monologo di Arimane e Pandora la dicitura “monologo” è parola-chiave, usata perché «il dio e la creatura quasi smarriscono ogni valore distintivo per porsi come voce duplice e una, voce dis-concorde dell’approssimazione vitale: il dio recita i versi dei poeti, dato stupendo della tradizione; la creatura ne profila un commento “novissimo”, salvo a indulgere poi alla seduzione di tentare anch’essa una propria poièsi». 

Ho così dato anche un esempio della densissima ed affascinante scrittura che l’autrice adotta in questo libro prodigioso e difficile. Tutto è basato su un linguaggio e un pensiero ossimorici, i confini (fra prosa e poesia, fra riflessione filosofica e fabula) vengono stravolti in un procedere ora cristallino ora tormentato e ruvido, a sfregare contro la parete sgraziata della vita. Inoltre al capitolo settimo l’autrice ci ricorda che «Come ogni cosa umana, le parole conoscono la loro decadenza. Vive nei loro destini un’attrazione verso il basso, verso la cloaca, simile a quella che regge il corso del vivere umano; e inseparabilmente, ineluttabilmente, si affratella la virtù tormentata del riscatto dalla perfida usura della vita. Lo Schifo fu allegorico guardiano del bel Fiore d’amore in cortesia: pudore irsuto e ingenuo a contrastare la vocazione alla felicità, la sfida e freccia galeotta, l’affinarsi reciproco e baciarsi». Le parole - che non portano con sé nulla di divino - sono veicolo improprio dell’amore ma sono il migliore strumento a nostra disposizione; ma l’amore ora rifiuta lo Schifo di dantesca memoria (ossia il pudore, vedi Dante, Il Fiore XVI) in nome di una nuova ricerca della felicità, a conti fatti spesso infausta: nella metamorfosi delle parole, nel decadere del significato di “schifo” sta l’impronta della decadenza. 

L’argomento del titolo, che è sempre argomento o pretesto dei capitoli, è più volte introdotto in modo strabiliante, come accade al capitolo quinto:

Il libro è catalogo dell’albero. Il libro è metamorfosi dell’albero. E’ cosa ambita sedere tra pareti di libri come in una foresta; adire con memoria sensitiva il tacito stormire delle fronde che a un certo punto della loro vita furono le pagine bianche su cui si colgono i caratteri neri. E i neri caratteri parlano a volte di quello stesso stormire; lo rifanno in mimèsi originale, lo ripropongono fonicamente, descrivono lo scorrere dell’acqua che fluì a fare solida la carta, che si sposò alla bianca cellulosa e dalla mucillaggine sua chiara fece il foglio sbiancato, piano e puro, delimitato in via dall’indistinto del suo candido mare matriciale. 

Poco più avanti si fa largo, senza soluzione di continuità, con discrezione e piglio propriamente poetico, la studiosa: 

Non più sappiamo, ad esempio, quando diciamo “elenco”, che il suo significato di “catalogo” si annida in quello di “prova confutante”, a designare l’evolversi di vari valori e disvalori - il motivato disprezzo, la basilare ignoranza, la cosa più irrisoria. Ormai ignoriamo che “cattivi elenchi” sono per eccellenza gli uomini, in tal modo derisi dalle muse silvane che demoniche si vantano di avere il catalogo vero e il catalogo falso; l’ordine seriale di ciò che è, di ciò che non è. Così, in un nodo semantico rigoroso e tenace, ci ritornano i pensieri in parole che abbiamo inseguito, incontrato fin qui: l’essere e il non-essere, il catalogo e la metamorfosi, l’anamorfòsi e l’anagrafe. 

Verso la fine del capitolo il testo si trasforma in commento ad un’illustrazione: una capolettera, una P che introduce il nome Paolo nella quale figura un centauro nell’atto di scoccare una freccia:

L’incipit del nome dell’apostolo è già teatro del suo apostolato, e nell’ambiguità talora immite fra la cornice ed il rappresentato - campitura di fondo o sua figura? - si digrada la voce del poeta: l’entrare dentro lettere miniate vi attinge l’armonia d’anamorfòsi, ingigliando in faville uccelli d’oro, il cui corpo è un astratto flatus vocis; si fa sintassi, simbolo e profilo la lettera miniata dal poeta, monade che allude al proprio testo, al suo desinenziale, clausolare destino di silenzio: 

La lettera mortale, astrazione miniata,
innalza l’asta in rami e mostri stilizzati,
espansa sulla pagina in un’ansa prativa
che l’immaginativa alluminando esalta:
un centauro ostile e sottile
abita la Prigione, ansa dell’allusione;

Si torni a tale proposito a Il Tu e il Nulla, alla poesia Tír Tairngiri: «E’ la storia miniata, quando il corpo / flagello lene argina la mente: / volti fissati a gemme nel castone, / figlio dell’uomo a intarsio fra le lettere». 

Un altro esempio significativo di come “emerga poeticamente” la studiosa si trova al capitolo quindicesimo: 

Così credeva di dire. Ma non disse, perché sognava, mentre moriva, e le parole erano stelle oniriche, trascurate all’incanto, regalate; inani come schegge disperate, invano innamorate di se stesse: parole tarpate, estirpate. Dovevano passare molti secoli perché, come dicemmo, un poeta le ripensasse, e non così pure, così malate: approssimatamente, splendidamente sulle mutate vie della parola. Non per nulla, la sillaba della negazione è anche sillaba dell’interiorità:

[...]

L’esile sillaba in è sibilla di accordi
inquieti, dialettici, infetti,
quasi perfetti, assurdi e lieti,
fra il cuore e il suo coseno, ipotesa mania;
musa dell’invenzione, e dell’inanizione,
istiga l’innata paura
- inesatta entropia, adiafora amnesia;
interpreta e inibisce affetti, baci ed etimi,
negletti e audaci, obsoleti;
mima il patire - e l’appassire
nel mondo decorato di stanchezza. Inquisita palesa
l’incanto e lo sterminio della vita

Al capitolo quattordicesimo il tema amoroso prende una diversa e tragica consistenza: 

Nulla provò, nulla distrattamente, nell’assalire, elidere, avvilire la donna non domata che senza remissione gli si opponeva, gli si offriva a schermo; o nulla si credette di provare. Ma quando la vide stesa sulla terra - asfalto, prato, secoli a ventaglio - e dentro l’elmo slabbrato (dentro il casco allentato), quale gheriglio di noce entro il guscio, vide sfarsi il suo volto; quando vide distendersi le sue membra nella rigida tregua senza fine, pace d’oltre-confine, e acquietarsi il ritmo femminile nel sangue che pulsando se ne andava, bevuto dal terreno o dilagante sopra il catrame refrattario e buio, comprese allora un amore esasperato per qualcosa che aveva rifiutato. [...] L’amore un tempo dileggiato, ucciso, lui avrebbe voluto ora vitale, avrebbe munto dalle membra spente di colei che l’aveva combattuto, cercando la sua morte; in un malore che non gli pareva d’aver provato, aver trovato mai, così esigente, così destruente, da quelle membra volle essere avuto, al modo che una donna vuole entrare nell’altra donna e regno, senza potere mai. Fu l’urto dalla parte sua virile, fu l’urlo della rimossa sua femmineità. Sperma e sangue ricaddero sulla terra nutrice - la spuma della vita sul vino del tramonto irreversibile. 

E’ questa anche una dimostrazione dell’allargamento che subisce ogni capitolo, di come ogni argomento risolvendosi ne introduca sempre un altro più vasto. 

In altri capitoli la studiosa e la poetessa recitano un gioco delle parti, ed il lettore non può non essere coinvolto: si veda il capitolo sedicesimo: «Se (per un caso improbabile, e tuttavia non impossibile), un Jacopo notaro tornasse ancora a esistere, quanto il suo mestiere potrebbe alimentare la poesia? quanto al suo catalogo arriderebbe l’amaro assenso - dolce dissenso - della metamorfosi?». Di chi si parla? Di Giacomo da Lentini o di Jacopone da Todi? Il lettore risolverà facilmente il tenue enigma: «Capì, il notaio Jacopo, che per la prima volta nei suoi adulti giorni preordinati, per la prima volta aveva avvertito la forza regressiva del suo nome - la calamita di un’omonimia; per la prima volta in lui s’era insinuata l’emulazione, esegesi metamorfica del suo collega nato da Lentini». Di Jacopone è nota la sconvolgente conversione, che sembra essere rievocata dalla Salvaneschi poco oltre: «Ecco che cosa era. La sfera raggiata, lo specchio e la speranza, la bruna e la bianca, la scura - la sacra - figura d’argento; l’aveva dimenticata, attraverso gli anni, gli studi avari, gli avidi affetti, la vita esteriore, gli agi compiti, le formule innocue, le astute cautele, i doli ingegnosi. Ma improvvisamente, inaspettatamente, questa luna parvente era tornata a calare sulla sua vita». Proseguendo, ad “indagine” apparentemente terminata, si profila Nerina, una figura femminile amata dal protagonista-poeta: «Era forse la stessa? quella stessa Nerina che aveva conosciuto giovanissima, amato e perseguito, vanamente inseguito durante un vivo autunno versiliano, per perderla definitivamente - così aveva creduto, ed era accaduto così -, lasciati i boscherecci labirinti dei pini espansi nei malati ombrelli». Il riferimento alla Versilia e alla musa umana fa venire in mente Montale, a metà strada tra Forte dei Marmi e la ragazzina di La casa dei doganieri, ma il nome Nerina fa piuttosto pensare all’Aminta del Tasso e al Leopardi di Le ricordanze. Attraverso vari volti del Poeta maiuscolato l’autrice narra una storia polimorfa che coinvolge anche la multiformità e l’insieme di identità prese a prestito e manipolate da ogni poeta durante la sua ricerca, il che sarà in qualche modo tema del volumetto voci.

Concludo il discorso su questo splendido volume presentando come doverose citazioni due brani bellissimi, dai capitoli XVII (che è una autentica dichiarazione di poetica) e XIX, due temi diversi ma ambedue conferma di quanto detto all’inizio:

Nel molteplice abita un senso profondo, una missione fondamentale e funzionale; forse una non detta invidia, una paura, si cela, come spesso, nell’assioma manifesto dei filosofi: “gli enti non devono moltiplicarsi oltre la necessità.” La vita tutta dell’uomo e degli uomini accenna alla realtà del contrario, nell’empiria come nella fantasia: esperienze, speranze, divinità, ogni componente e comparsa della vita umana si moltiplica oltre il necessario - l’uomo stesso, l’uomo soprattutto, l’uomo in sé. E proprio in tale oltre-necessità risiede uno dei pochi processi necessari: perché sarebbe nata, altrimenti, la frustrata e frustrante aspirazione dei filosofi? e perché esisterebbero i poeti? Non forse per l’esigenza di ripetere, a ogni generazione almeno, certe parole-verità travestite da menzogna? Non basta studiare nel passato le mascherate verità in parola: occorre ripetere le già percorse strade come se fossero nuove; e tali, con maggiore o minore evidenza, sono sempre e ogni volta, perché nuovo o insolito - certo irripetibile - è il modo di percorrere le strade uguali, di ribattere e ricostruire sui sentieri sommersi nel passato.

Chi difende la vita e il suo durare contro ogni costo, sopra ogni valore, deve sapere che in tale ostinazione anche offende la vita e i suoi valori. Se la vita non è solo sussistere con il macabro corpo insolentito, ma ambigua libertà di decisione, rispetto dell’altrui infelicità, pudore delle proprie zone ombrose, dei propri aromi genitali, amari, come si può affermare con violenza che la sopravvivenza formi un diritto proprio, altrui dovere? Solo chi non ha visto un lazzaretto di persone anziane, domate a continuare l’esistenza grazie all’indubbia abilità chirurgica, ai farmaci potenti e velenosi; [...] solo chi disconosce quale sia l’esistenza dei salvati, può ancora ritenere questa vita invecchiata una conquista contro l’adeguartezza della morte. Lo schifo si corrompe in tenerezza di fronte alle bocche di nuovo sdentate che in tetra inappetenza, pur vorace, con la scaltra movenza degli implumi protendono la loro ventosa ai labili capezzoli mentali di chi li aiuta ancora a sopravvivere. [...] Non resta che aver chiaro, ancora e almeno, l’empio relativismo dei valori, dell’omega e dell’alfa in cui si celebra il male inalienabile dei vivi: lo sgomento del bene, della vita che vince ed avvince, della morte che vive e fa vivere. Dialogo non è - ma monologo in due, dal morente al nascente nell’unisono. 
 

Inserisco tra i due vertici di Catalogo e Metamorfosi e Psicomachia una plaquette, pubblicata nel 1998 ed intitolata voci. Sotto il titolo minuscolato sono raccolti sei componimenti poetici che si propongono di imitare (ma anche introiettare) le voci e gli accenti di sei grandi del passato, autentici archetipi poetico-filosofici: Emily Dickinson, Baudelaire, Lorenzo da Ponte, Dante, Saffo e Kierkegaard. Anzi, di imitazione c’è in realtà ben poco: l’operazione consiste nella realizzazione di sei anacronistici colloqui-monologhi, nei quali in realtà restano integri e riconoscibili i caratteri delle singole voci [30].

La Salvaneschi colloquia con questi sei grandi del passato, sembra, sulla scorta dei suoi libri precedenti: sono infatti diversi i collegamenti (formali, tematici...) fra questi sei testi ed i libri precedenti dell’autrice, ma mi permetto - e mi scuso per l’operazione poco scientifica - di non estrapolare ed evidenziare i vari collegamenti: si tratta di un libretto che trae linfa anche dall’intimità e sembra giusto non privare i testi della leggerezza calviniana che li contraddistingue. Inoltre sarebbe inutile tentare di presentare una poetessa tesa a scaraventarsi, armata dei propri precedenti versi, nel confronto con sei grandi nel tentativo di guadagnare un posto di prima fila nella letteratura: a questa tentazione diffusa fra chi tenta una simile rischiosissima operazione di confronto la Salvaneschi non da ascolto, così come fugge la tendenza generale alla superficialità e all’autismo. 

In questo libro l’autrice dimostra come sia in grado di trovare il giusto punto mediano fra i due poli della realtà e della poesia (che non sono mai in contraddizione nel caso della vera poesia): come scrive Carlo Rao nel pretext, per la Salvaneschi la realtà e la poesia manifestano «un’uguale misura di vita». I sei testi sono sei occasioni che l’autrice ha per confrontarsi con alcuni aspetti del suo essere poetessa, anche perché come dice Fernando Pessoa «ognuno di noi è più di uno, è molti, è una prolissità di se stesso».

La più recente opera letteraria edita [31] di Enrica Salvaneschi è Psicomachia. L’opera si presenta come un poemetto, apparentemente costituito da componimenti di varia entità legati tra loro in un continuum, che renderebbero quasi accessori i titoli identificanti le varie sezioni. In realtà, i titoli sono una sorta di guida per il lettore, all’interno di un testo che si snoda in una trama concettuale rigorosa. Rimando alla prefazione di Paolo Valesio per quanto riguarda la tecnica del rimalmezzo e dell’emistichio di endecasillabo, nonché per le riminiscenze dantesche, dannunziane e (queste discutibili) pasoliniane. 

La nota più importante che occorre fare è che in questa opera si realizza al meglio e con maggiore chiarezza l’intenzione di realizzare una poesia filosofica, intenzione che ora mette da parte anche con una certa durezza intenti esegetici e filologici che, se non possono mancare in una simile autrice, fanno comparse più discrete. L’orientamento verso la poesia filosofica è dichiarato innanzitutto dal titolo: citazione di Prudenzio, che aveva messo in scena fra il IV e il V secolo d.C. un allegorico combattimento di Vizi e Virtù, il termine è qui da intendere come combattimento nell’anima o per il suo possesso. La tensione psicologica, già affiorata in Il Tu e il Nulla, finalmente trova qui il suo habitat ideale: dopo la tendenza all’astrazione, l’abbandono cauto alle muse, l’esplosione dei sentimenti precedentemente troppo costretti (ma ancora in presunta lotta con il rigore raziocinante), qui l’autrice ha trovato il giusto equilibrio, il modo di dire ciò che vuole dire senza abbandonarsi allo sterile intellettualismo, ma anche senza fare violenza a se stessa ricercando la semplicità - che è un mito malato. 

Anche la tendenza metrica, sul cui abbandono e recupero sempre si dibatte animosamente, trova nella Salvaneschi un’autrice dalle rare capacità: usa la metrica non come una gabbia ma come una lente, è naturale e quasi mai risulta artificiale all’orecchio, la lettura non è qui minimamente appesantita e non ne è assoggettata. 

Opera di straordinaria intensità, Psicomachia si getta nella tradizione con forza notevole, a tratti con autentico desiderio di appropriazione che non è trucco ma può essere, in mano ad un autentico scrittore, segno di acume poetico. Ricordo a tale proposito una frase di Giuseppe Pontiggia: «citare è un’arte difficile. Non è appropriarsi di una espressione, ma farla propria. Diceva Virgilio, a quelli che lo accusavano di plagio: “Perché non tentano anche loro gli stessi furti? E’ più facile strappare una clava a Ercole che un verso a Omero”». Riferimenti agli antichi (ricordiamo anche Claudiano con la sua Gigantomachia, e soprattutto il possibile paragone ironico con la Batracomiomachia pseudo-omerica), andamenti gozzaniani, un lessico ancora una volta duecentesco e provenzale («almo», «fomento», «dolzore») e dantesco («trasumana») [32]. Non manca la sempre presente coesistenza di termini astratti («carezze oltremondane») e termini concreti, a volte violentemente quotidiani («feci», «osteoporosi», «linfonodo», «metastasi», «tumore»). Come sempre la presenza di “giochi di parole” di vario genere (in senso retorico e non ludolinguistico) è considerevole, e mai essi sono fini a se stessi, ma sono organicamente inseriti nel tessuto poetico ed evidentemente “spontanei”, ossia sentiti come necessari al processo di deformazione della realtà (inteso come cambiamento dell’ottica per una maggior comprensione di essa) necessario alla poesia. In questa sorta di versificazione sui massimi sistemi fanno talora da contraltare momenti di intensità carnale, in cui si noti la fitta trama di allusioni sempre eleganti:

[...]; se ne arroventa il vetro
della stanza poetica,
e nel velo dell’inno e dell’imene il duro zelo
penetra e piaga: pene dell’amore.
Si introietta il piacere del dolore:
mentre il dolore vive, almo fomento
succhiato dall’anonimo spavento
che tende all’affamato
il suo capezzolo, il piacere dilaga a spargimento
di risorse di linfa e di dolzore,
sulla cui cremagliera,
aspro nitore, stride la ruota rotta del ribrezzo.

Occorre un breve accenno alla struttura formale di questo poemetto. Esiste di esso una versione inedita in ottave, o meglio costruita su un’ottava reinventata dalla Salvaneschi [33], una sorta di compromesso fra ottava e sestina. Si osservino infatti i versi riportati in quarta di copertina: la rima è ABBCBAAC, e C diventa A nell’ottava successiva. Una volta composto il testo, l’autrice decise di nascondere in qualche modo la struttura instaurando un ambiguo rapporto con l’endecasillabo, talora “scavalcato”, talora approssimato in settenario. In alcuni casi però (vv. 1-8, 385-392, 785-792, ossia inizio, posizione centrale e chiusura) l’autrice ha voluto isolare le stanze di otto versi, quasi a lanciare una sfida al lettore ignaro della forma originale del testo. 

Esponendo brevemente l’evolversi del lavoro, dopo invocazione alla Musa - invocazione scopertamente ed intenzionalmente formale, piuttosto funzionale ad una contestualizzazione («La voglia recidiva e contumace / di poesia dilaga nella mente; / contende con i giorni e con la gente / per avere il suo tempo e la sua cura. / Indiscreta, impotente e prepotente, / promette un’assillante ed ebbra pace / dove ogni dissidio, pur vorace, / si esalti e stanchi in labile radura») - segue la “sezione” Exempla (si ricordi quanto detto circa l’esemplificazione a proposito di Teoria) che fa da rovescio all’idea abituale di Musa. In Nozze paurose si «introietta il piacere del dolore» attraverso ossimori e dure metafore, per chiarire nella successiva sezione l’opposizione di un «questo» che è quanto di terreno ed avvilente esiste, spesso come evidente necessità di disillusione, e un «quello», ossia l’eternità, «gli elisi / prati delle carezze oltremondane» che non sono altro che «frivolezze di falsi paradisi», che non si oppongono, «nel diamante / nero dell’euforia disidratante», al «questo». La visione filosofica dell’autrice è di un Questo senza quello, «basta la vita alla partita avara, / orrore dilaniato dalla musa / di una bellezza la cui stolta gara / screpola mani e labbra / in dure setole». Con leopardiana tensione la Salvaneschi afferma che 

noi non sappiamo se una qualche scusa 
motiva in qualche modo 
il nostro mondo; ma se dilapidiamo andiamo al fondo
della nostra persona - breve soma - 
sentiamo che, concluso il girotondo
dello spreco burlato alla rinfusa
nell’esistenza lucida e delusa,
non ci sarà risveglio dal nostro coma.

L’illusione di una vita oltre la vita è vana perché «Non si trapianta la rosa noiosa, / non rivive l’efimera mimosa». Attraverso un momento nietzschiano («Consolazione, sì; ma disumano, perché umano, / purtroppo e troppo umano, / s’impone il corollario - guasto, casto: / l’adeguarsi al dominio dell’Invano», orrido mostro per quanto «mite») inizia un percorso denso di domande a se stessa («E’ segno solo di osteoporosi / l’eccedente entusiasmo / renitente, che propaga dallo scheletro le scosse / di un sistema metafisico? Le fosse / scavate nella mente / dai marosi ritrosi della vita e maestosi / non tengono che il fiore dell’autismo? / E’ stonato, sbagliato il mio melismo?») nel quale troveremo affrontati non pochi degli argomenti di Teoria, e nel quale lo sguardo confessa che vorrebbe un inagibile panorama, vorrebbe scavalcare un montaliano «muro avverso», ma questo diviene un leopardiano «muro liso / [che] chiude l’orizzonte, / opponendo all’ansioso, miope ponte dello sguardo / l’alveo quasi logoro / delle grondaie». Basterebbe poco perché lo sguardo riuscisse a lib(e)rarsi, ma «per sfuggire l’incubo d’asfalto / non basta o non soccorre / la sostanza dell’ingegno interiore, la costanza / dell’ascesi discreta; solo il caso / della fortuna crea la circostanza che regala / la cima dello spalto / a chi nell’eremo tacito e alto / vorrebbe esorcizzare l’inevaso / disagio della vita e del Parnaso».

Credo sia sufficiente questa esplorazione nell’inizio del poema a figurare il viaggio dantesco della Salvaneschi nel particolarissimo interregno dell’anima (che è mente), e per descrivere la densità che la poesia della Salvaneschi ha raggiunto, in perfetta sintonia con una poesia filosofica che pochi ancora sono riusciti a realizzare pienamente. Uno che se ne intendeva, Giacomo Leopardi, scrisse: «E’ comune al poeta e al filosofo l’internarsi nel profondo degli animi umani e trarre in luce le loro intime qualità e varietà, gli andamenti, i moti e i successi occulti, le cause e gli effetti dell’une e degli altri». Sembra a tratti che l’unica poesia possibile sia filosofica. In sua difesa scrisse Hans Riechenbach: «In tutta la storia del pensiero è facile rinvenire connubi fra la mentalità filosofica e l’immaginazione poetica; a quesiti formulati dal filosofo ha spesso risposto il poeta». Più lapidario fu Baudelaire: «La poesia è essenzialmente filosofica». Si interroga, combattuta, l’autrice:

La mia parola libera, che spazia
tra le pagine eterne dei poeti,
ripercorrendone i chiari segreti
nella sua transumanza
creativa, è plebea, pedante, repulsiva,
e con le sue continue, linde emazie contamina
i modelli ove si sazia
la convenzione asettica e corriva.

Tra dubbi di metodo, meditazioni sulla parola e sull’anima malata, discussioni sul problema della Conoscenza tardiva (in quanto l’anima, spoetizzata e «definitivamente moribonda», si accorge troppo tardi di essere destinata ad appassire in un «inerme divenire niente») e sull’Ironia della morte, si conclude che la poesia, la Nunziata («assurda annunciazione: / eletta piaga di visitazione / inferta dallo spettro / angelicato del pensiero impensato, alterazione / di ogni fisiologica / costanza in eccezione e fede d’ignoranza»), è l’unica speranza di una vita che ha come unico significato l’Invano, «il vino al metanolo del divino». L’anima si rende conto del suo «sparire nei centauri / nei sospiri».

Conclude la Tenzone fra Amore e Libertà, che si affianca a Metope nella riflessione sull’amore che «è la rovina che sovrasta / la libertà difficile, suicida» e la felicità che è «liberticida / la smania che rapina / e che soggioga la volontà, debilitata guida / cedente alla deriva / dolce e guasta». 


[1]Mrs. Lot. A monologue, in: AA.VV., Hebraica - Miscellanea di studi in onore di Sergio J. Sierra per il suo 75° compleanno, a cura di F. Israel, A.M. Rabello e A.M. Somekh, Torino, Giunti, 5759-1998, pp. 485-502
[2] in «Semicerchio» XIX (1998, 2), pp. 16-26
[3] in «L’immagine riflessa» N.S. anno VII (1998), pp. 1-38. Questo articolo è anche un esempio di come l’autrice non esiti talvolta ad inserire nelle sue trattazioni cenni a discipline (apparentemente) eterogenee, nel caso specifico le matematiche: l’“invenzione” dei frattali. 
[4] in «Testuale» n. 20-21, 1996, Quaderno n.2, pp. 83-106
[5] E.S., Memento vivere (Qohélet 12, 1-8), in «La rassegna mensile di Israel», s. III, LVI, 1990, pp. 31-59
[6] E.S., Ritorni di parole, cit., p. 43
[7] scrive l’autrice nel testo Dichiarazione d’amore in letteratura: archetipi e confronti, in La dichiarazione d’amore - Atti del colloquio d’Urbino (15-17 luglio 1996), a cura di Nadine Gelas e Catherine Kerbrat-Orecchioni, Erga edizioni, Genova 1998, pp. 340-355: «ogni dichiarazione d’amore è anche una dichiarazione del male di vivere».
[8] cfr. E. S., Dalla nuvola al non-essere: il centauro, in «SUGKRISIS e’», Il Melangolo 1986, p. 37. Occorrerebbe concentrarsi anche sulla ricorsività del tema della “nuvola” nella poesia dell’autrice, tenendo presente che la Salvaneschi ha fra l’altro dedicato a The cloud di Shelley due interessanti articoli su «Concertino» II 7 e 8, settembre e dicembre 1993 (vedi anche il già citato Gita a Cariddi, alle pp. 12-16). Occorrerebbe inoltre un’indagine circa l’utilizzo del pronome poetico “fiore” nella sua poesia, sulla scorta del suo saggio Storie di pronomi poetici: “briciola” e “fiore”, in Studi in memoria di Ernesto Giammarco, Giardini editori e stampatori, Pisa 1990, pp. 291-313 (l’autrice stessa afferma alle pp. 308-309: «non è impossibile che l’ultima poesia novecentesca, talora assai attenta ai moduli delle origini, si ricordi di questa feconda possibilità semantica»). Si vedano a titolo di esempio i passaggi «Ma non c’è stasi, rilassarsi o pace: / giunta al suo fiore, / inizia a rimorire la marea» (Il Tu e il nulla, p. 22) e «Cede all’usura / dell’universo / ogni perfetta geometria del pari, / si interrompe nel golgota e nel sangue - / peso tempo colore - crocefissione e fiore» (op. cit., p. 44). 
[9] lettera privata dell’autrice (28 aprile 1999)
[10] Paolo Valesio, prefazione a Psicomachia, cit., pp. 7-21
[11] cfr. anche E. S., Meditazioni di una vittima rifiutata, cit., p. 20
[12] L’autrice (lettera privata, 18 settembre 1999) ci informa che la citazione deriva dal poemetto medio-irlandese La follia di Suibhne (vedi bibliografia). Ma in effetti si tratta di un riferimento popolare o pseudo-popolare, in quanto la frase è probabilmente un proverbio. 
[13] Cantico dei Cantici, cit., pp. 98-99
[14] In un celebre saggio su Adonis (P.V., Varietà, SE, Milano 1990, pp. 93-94) Paul Valéry scrive che non è impossibile attribuire al rigore della forma «un valore pertinente e specifico. Scrivere versi regolari, significa certamente rimettersi a una norma estranea, abbastanza insensata, sempre dura, talvolta atroce; essa non concede l’esistenza a una quantità di belle possibilità, mentre la concede a una folla lontanissima di pensieri che non si aspettano di venir formulati». Posso essere d’accordo, mentre credo sarebbe ingiusto nei confronti della Salvaneschi il seguito di Valéry, secondo il quale solitamente in questi casi una serie di pensieri indegni si compensano con una serie di «sorprese incantevoli», in una sorta di oscillazione intorno allo zero. Tutt’al più concordo con il fatto che «basta scavare a fondo in se stessi per capire che l’idea che ci eravamo fatta d’una perdita o d’un profitto relativamente a sostanze ideali era assolutamente ingenua».
[15] cfr. poi ancora, per un ulteriore parallelo, l’ articolo: Dalla nuvola e al non-essere: il centauro, cit. 
[16] Per uno studio simile si veda, sempre di E. S., Specchio smerigliato, «Il Babau», II 8, giugno 1993, pp. 56-57
[17] cfr. il poemetto Cleptomania, pubblicato a seguito di un estratto del presente saggio in «Hebenon» (vedi bibliografia)
[18] Evidente riferimento al saggio di Roman Jakobson Una generazione che ha dissipato i suoi poeti, trad. it. Einaudi, Torino 1975
[19] Un accostamento forse non troppo peregrino, sulla scorta della nostra ipotesi, può essere quello con un brano da La taverna dei destini incrociati di Italo Calvino: «Non so da quanto tempo (ore o anni) Faust e Parsifal sono intenti a rintracciare i loro itinerari, tarocco dopo tarocco, sul tavolo della taverna. Ma ogni volta che si chinano sulle carte la loro storia si legge in un altro modo, subisce correzioni, varianti, risente degli umori della giornata e del corso dei pensieri, oscilla tra due poli: il tutto e il nulla. “Il mondo non esiste”, Faust conclude quando il pendolo raggiunge l’altro estremo, “non c’è un tutto dato tutto in una volta: c’è un numero finito d’elementi le cui combinazioni si moltiplicano a miliardi di miliardi, e di queste solo poche trovano una forma e un senso e s’impongono in mezzo a un pulviscolo senza senso e senza forma [...]”. Ma questa sarebbe la conclusione (sempre provvisoria) di Parsifal: “Il nocciolo del mondo è il vuoto, il principio di ciò che si muove nell’universo è lo spazio del niente, attorno all’esistenza si costruisce ciò che c’è [...]”». 
[20] E.S., Il Tu della preghiera, l’Io di Pigmalione, «Bailamme», 10, 1991, pp. 197-239
[21] Il citato commento al Cantico apre la collana “Testi religiosi” dell’editore Il Melangolo. Il risvolto di copertina recita: «Una “collana di testi religiosi”, in cui quest’ultimo termine volutamente assume l’accezione ad un tempo più comprensiva e puntuale: non quindi legata ad alcuna formula di fede o di religiosità confessionali, non vincolata a preconcette equivalenze fra “religioso” e “sacro”, qualora con “sacro” si intenda definire il privilegio di una trascendente investitura divina. E’ religioso, nella nostra ottica, tutto quanto riguarda il rapporto - figurale e linguistico - dell’uomo con ciò che egli avverte e sperimenta come ab-solutum: il punto di coincidenzain cui il desiderio dell’eterno e la passione della felicità si compongono placati nell’inganno e nel gioco sempre vario e mutevole della parola mortale, eco, essa stessa, del Silenzio». Allo stesso modo, con SYNKRISIS l’intento era di presentare una serie di testi e contributi tesi a documentare e definire una nozione di “linguaggio religioso” assolutamente a-confessionale. 
[22] La Salvaneschi insiste su un’«inferriata», e così Manzoni presenta Geltrude tramite lo sguardo di Lucia: «guardò da quella parte, e vide una finestra d’una forma singolare, con due grosse e fitte grate di ferro, distanti l’una dall’altra un palmo; e dietro di quelle una monaca ritta» (I promessi sposi, cap. IX).
[23] Proporrei di concentrare l’attenzione anche sul rimando in Invece del tema della torre, e della donna che si offre, ancora una volta al Cantico, là dove «Sono un muro, e le mie mammelle sono torri» (8, 10) e «Il tuo collo come torre d’avorio» (7, 5) richiamano al «fino all’enigma grato che nei riccioli / ombreggiava il pallore delle tempie, / sollecitava il collo prono ai baci» dell’autrice. D’altra parte «le “torri” appartengono dunque alla costellazione del [...] “piacevole”, ciò che diletta la vista e i sensi» (cfr. Cantico dei Cantici, cit., p. 58).
[24] testo che ha fatto nascere una discussione sulla figura dell’iperbato: cfr. E.S., Tra iperbole e iperbato, «Testuale», anno XV n.25, secondo semestre 1998, pp. 20-22
[25] cfr. Cantico dei Cantici, cit., pp. 108-109. 
[26] Fra gli interventi dell’autrice sui Carmina Burana segnaliamo il recente L’inferno in una ciotola: sul cigno imbandito dei Carmina Burana, in: L’aldilà. Maschere, segni, itinerari visibili e invisibili, atti del II Convegno Internazionale (Rocca Grimalda, 27-28 settembre 1997), a cura di Sonia Maura Barillari, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2000, pp. 35-50
[27]Carmina burana 149 (edizione di A. Hilka e O. Schumann, Heidelberg 1941; trad. it. di Piervittorio Rossi, Milano 1992). Si veda (e riascolti): Carl Orff, Carmina Burana (1937)
[28] Il segno forse più importante di questo anti-platonismo è la monografia Briciola. Storia fantastica di un’idea (vedi bibliografia). Recita la quarta di copertina: «Il nome briciola assomiglia a nomi come capello, fango, sporcizia, dietro ai quali, secondo Platone, non è possibile presupporre alcuna idea. In dissidio con tale assunto, cui paga un inevitabile contributo la concezione accademica, questo saggio si propone di rivendicare a un nome così semplice e quotidiano una propria dignità concettuale, un panorama mitico e una strategia ben temperata di alleanze semantiche. L’etimologia del termine, afferente al dominio del dionisiaco, costituisce il punto di avvio per un’analisi che da linguistica si fa scopertamente letteraria e filosofica, delineando un irredento ritmo antitetico cui il pensiero nietzschiano si offre ad un tempo come matrice e come mèta». 
[29] Una possibile derivazione del titolo si può trovare anche nel saggio di E.S. La giostra semantica del “brutto” (in: «Quaderni di semantica», XII 1, giugno 1991, pp. 135-166) che così esordisce: «E’ ingrato il mestiere di chi deve distinguere ciò che è unito, catalogare quanto, per sua essenza, è metamorfico; e dunque ingrato fra tutti - pur se indispensabile - è il mestiere del lessicografo». Si consideri anche un passo da: E.S., Linguaggio piccolo e panna poetica, in: «Concertino», III 11, 31 ottobre 1994, pp. 3-5: «cammina e cammina, appunto come nelle favole, per arrivare a ciò che sta dietro l’espressione e il pensiero, a quanto li nutre e li disfa: una mitica ovulazione primordiale decantata tuttavia in sterilità, nido di metamorfosi».
[30] Scrive la Salvaneschi in Meditazioni di una vittima rifiutata, cit., p. 25: «Poetare non è nuovo sotto il sole; ma è nuova ogni poesia. La faida dell’archetipo non sembra e non può avere fine; fortunatamente, fortunosamente prima finiremo noi». Ricordo Ecclesiaste (1, 19): «Ciò che è avvenuto, questo è ciò che avverrà; e ciò che è stato fatto, questo è ciò che si farà; e così non c’è nulla di nuovo sotto il sole». Si confronti infine il già citato: E.S., Memento vivere (Qohélet 12, 1-8)
[31] Il poemetto poesia è uscito alcuni mesi dopo il completamento del presente saggio [Nota aprile 2000]. 
[32] Di questa tendenza, diffusa in tutta la poesia della Salvaneschi, parla l’autrice stessa nella Visita all’orto core, postfazione al volume di Cristiana Bortolotti La ruggine e la rosa (Book editore, Castel Maggiore, 1998, pp. 111-121): «Con particolare fervore segnalo la ripresa di termini propri del linguaggio poetico due- e trecentesco, perché più volte mi sono trovata a considerare (e talora concretamente tentare) l’opportunità di un loro recupero all’attuale linguaggio poetico», in questo accomunata a Cagnone, Valesio e Bettarini. Il titolo della postfazione nasce dall’analisi dell’abbinamento paratattico di due sostantivi: a tale proposito di veda il saggio di E.S. L’alma pianta: sul demonismo semantico del Petrarca, «Quaderni dell’Istituto di Glottologia», Università “G. D’Annunzio” di Chieti, 4, 1992, pp. 61-94.
[33] Sarebbe necessario indagare più profondamente l’adesione all’ottava di questa autrice che ha più volte espresso la sua ammirazione per il Tasso, ammirazione che ha avuto il suo culmine nella rilettura tassiana Gerusalemme Liberata (vedi bibliografia). Vedi anche ad esempio: E.S. e Maria Luisa Dodero, Il Tasso errante: itinerari comparati, in: Anglistica e...: metodi e percorsi comparatistici nelle lingue, culture e letterature di origine europea, Volume I - Transiti letterari e culturali, Atti del XVIII Convegno AIA (Genova, 30 settembre - 2 ottobre 1996), EUT, Trieste 1999, pp. 47-57. Raccomandiamo di accostare, come discussione sulla prospettive comparatistiche, l’articolo: E.S., Ringhiera semantica, «Concertino» V 16, 30 aprile 1996


24 giugno 2001


Indice della sezione
Indice generale
Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


Per informazioni, si prega contattare:
Otto Anders