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Recensioni e note critiche
Roberto Bertoldo: Il Lucifero di Wittenberg-Anschluss
di Sandro Montalto


L’UOMO E LA STORIA. CONSIDERAZIONI SU
Il Lucifero di Wittenberg - Anschluss DI ROBERTO BERTOLDO
«La clessidra», anno VI n.1, aprile 2000, pp.123-127

Forse la storia universale è la storia 
della diversa intonazione di alcune metafore.
jorge luis borges , Altre inquisizioni

Chi ha visto il presente ha visto tutte le cose: 
quelle che furono nell’insondabile passato, 
quelle che saranno nel futuro. In tutte le cose 
unico è il genere ed eguale la specie.
marco aurelio, Pensieri, libro VI, 37


La prosa, specialmente se di recente creazione ed opera prima (o come in questo caso prima opera edita), sembrerebbe per sua natura refrattaria ad indagini eccessivamente minuziose - fatta eccezione appunto per alcuni capolavori immortali che sopravvivono a qualsiasi escavazione e persino manipolazione -, rivendica la sua identità di organismo tendente a fornire un’idea derivante dal suo complesso. Sezionare un racconto può sembrare un atto di prepotenza; inoltre, si sezionano generalmente organismi morti, mentre questo libro di Roberto Bertoldo è vivo e palpitante. 

Nostra intenzione sarà quindi concentrare l’attenzione sulla sua dimensione etica.

Il primo dei due racconti è stato scritto nel 1989 «durante i giorni della rivoluzione rumena» come recita una nota, ma «questo racconto analogico è sempre, purtroppo, di sconvolgente attualità». Ogni eventuale equivoco circa il punto da cui muove l’autore è fugato dall’aforisma di Oscar Wilde posto in epigrafe: «accordarsi con la propria epoca è la più grande immoralità che un uomo possa commettere». 

Protagonista del Lucifero è Thomas Müntzer, nemico giurato di un Martin Lutero che è visto come il simbolo dell’idealismo, dell’egocentrismo e dei gravi pericoli che queste aberrazioni comportano. Uomo che invece ha il coraggio prima di tutto intellettuale di stare dalla parte dei deboli, Müntzer in questo racconto è alla guida della rivolta contadina del 1525: all’interno dello scenario di rivolta, e in particolare di uno dei tanti massacri perpetrati dai principi tedeschi, sente necessario relegare in secondo piano le pur fondamentali dispute etico-teologiche che lo contrappongono a Lutero, e si sente un uomo sdegnato perché appare «necessaria la violenza per ottenere un po’ di giustizia», insomma si chiede se solo i malvagi hanno potere o è il potere che rende malvagi. Azzarderei che Müntzer sembra addirittura un antecursore che si muove all’interno della distinzione hegeliana fra eticità e moralità. 

Nella storia fa da contrappunto (lieve, delicato in verità) la vicenda amorosa di Helene e Karl (si veda soprattutto la bellissima conclusione del capitolo 5). E’ però evidente come questa vicenda, narrata sempre a tinte dal carattere improvvisamente idilliaco, sia in antitesi con la situazione che le sta intorno e serva ad accentuare la barbarie della realtà storica; viene infatti ben presto obliata - non soffocata - dagli eventi. 

La recensione a un racconto non può svelarne la trama: certo non si legge un buon libro solo per vedere come va a finire, ma le qualità del testo devono essere degustate con il necessario contorno della trama, dall’interno di una specifica architettura. Quindi ci limiteremo a fare qualche osservazione circa la forma: il libro non ne risentirà perché evidentemente Bertoldo è scrittore che parte sempre dal contenuto per trovare la forma, cosa che non lo rende vittima di facili attacchi, ed assicuriamo che la lettura di questo volume resta anche dopo qualche indagine quanto mai piacevole e (il che non è così scontato) istruttiva. 

La prima caratteristica formale del Lucifero che balza agli occhi è l’iniziale ricchezza del linguaggio, che poi va pian piano impoverendosi in corrispondenza dell’aumento di tensione degli eventi e dell’aumentare degli aspetti cruenti; un esempio eccellente si trova all’inizio del racconto, in un brano della descrizione del dottor Martinus, nel quale i piacevoli abbellimenti, come sempre in Bertoldo, non sono mai gratuiti ma funzionali ad una profonda valutazione sulla persona: «Vissuto per oltre dieci anni, gli ultimi, nell’approvvigionamento di grassi, Martin aveva avvolto in una mansueta pinguedine le sue durezze che solo gli occhi, notoriamente inattaccabili dall’adipe, lasciavano trasparire al minimo esplicito accenno a talune vicende passate». Tutta la narrazione è quasi regolarmente attraversata da stoccate, come quando Lutero (uomo che aveva affascinato «ettari di uomini») rievoca la sua «sconfitta oratoriale» del 24 agosto 1524, giorno a partire dal quale «la strada della persuasione verbale ebbe bisogno di un sostegno armato e il popolo finì per trovarsi nella propria testa oltre l’ignoranza la punta profanatrice d’uno spadino irresoluto». Occorre leggere con attenzione: non c’è nulla di superfluo e la tensione civile e filosofica che caratterizza il racconto si fa sempre più chiara: Martin non esita ad urlare ad un amico «tu parli da uomo non da teologo, ti dico di più: non da servo di Dio». Ancora più significativi sono i passi aforistici inseriti fra le parole del narratore: «Barthel, conoscendo il maestro, sapeva che in lui, come in tutti i resoluti, l’irritazione era la mistificazione dello scoramento»; «poiché l’elasticità è indubbiamente un segno di intelligenza, a volte non c’è possibilità di essere al contempo giusti e intelligenti e non è un caso che quelli che la morale considera malvagi siano spesso persone straordinariamente evolute»; «la speranza, quando diventa l’unica arma in nostro possesso, è la più arturiana delle spade ed ottiene sui campi di battaglia della mente tali miracolosi successi da fare credere addirittura, ad esempio, che si possano costruire paesi di cuccagna nei quali la maggioranza nuda possa contare più della minoranza armata»; «solo Dio perfetto e unico è in grado di guardare e amare all’ingrosso senza fare danni». 

Un efficace espediente adoperato per rendere partecipe il lettore è lo “spostamento di ottica”: talvolta la parte del narratore è affidata al cosiddetto narratore onniscente, altre volte la narrazione è affidata alla voce di uno dei personaggi, si direbbe ai suoi pensieri, quasi a facilitare l’entrata del lettore nella mente dei protagonisti, in un linguaggio che vistosamente si fa nel secondo caso meno attento ai particolari “fisici”, meno supportato dalla vista e più indagatore dei meandri psicologici. 

L’onestà intellettuale dell’autore chiede giustizia, e ci si avvicina meravigliosamente smascherando gli impostori: nella figura di Hellmut (p. 43 e segg.) Bertoldo concentra il sacrosanto disprezzo nei confronti di certi saccenti - che chi lavora nel mondo letterario incontra spesso - descrivendolo come un uomo che leggeva in media un libro al mese e «dagli altri contadini era considerato colto perché viveva col libro sin quando lo aveva letto interamente e poi per un po’ di giorni traeva da esso tutta la propria saggezza», un uomo al quale «le idee altrui interessavano solo se confezionate in un libro». Più avanti si scaglia anche contro le ipocrisie imperanti: «due uomini dalle spalle possenti e gli stracci da boia nascosero il viso, dopo averlo ampiamente mostrato nel corso dei preliminari, in neri cappucci di tela quasi che l’espressione di un carnefice durante l’atto fosse meno lecita di quella di una vittima. Pudicizia della morale!».

La riflessione filosofica da parte del protagonista conosce un vertice al capitolo 9, dove in Thomas si fa più prepotente il rifiuto della violenza come strumento: «un giorno aveva pensato: “la ragione dell’esistere è nell’esserci”. Lo aveva subito sotterrato, quel pensiero eretico, tuttavia come semi amari producono frutti dolci gli era sorto in petto il rispetto per la materialità, per l’esistenza fisica degli uomini. Come poteva farli uccidere, dunque?». Questo ancora in opposizione alle posizioni di Lutero (che è «solo parole», come dirà più avanti un suo compagno dissidente): «purtroppo troppo spesso i realisti hanno a che fare, per danno reciproco, con gli idealisti». Altrove la riflessione di Müntzer assume (in un unicum) connotati in un certo senso bizzarramente estetici, ma sempre pregnanti, là dove l’amore per l’uomo porta ad esiti imprevisti: di fronte ad una distesa di cadaveri «non avrebbe creduto, in base al valore individuale che assegnava alla vita di ognuno, che la quantità della morte potesse colpirlo vivamente quanto la qualità d’essa. La morte del suo più caro amico o la morte più tragica e violenta che potesse esserci non avrebbero prodotto in lui, pur nel loro dolentissimo strascico, la stessa atroce sensazione che produceva il massacro generico d’una massa anonima. Anzi la collettivizzazione della morte a discapito dell’unicità degli esseri lo disgustava quasi lo disgustasse la mancanza di originalità dei soldati. Era per lui come un dovere cristiano riservare ai nemici, quando non li si risparmiasse, un po’ della propria fantasia». Si arriva a domande tanto semplici quanto laceranti: «Oh Dio, certo ci sei, ma dove, come, perché?». Ed è in effetti ben più doloroso chiedersi dove un Dio che certamente esiste sia finito, piuttosto che negarne l’esistenza.

Può essere infine tanto schienante l’attraversamento della propria vita da far virare, in una mente evoluta, la certezza religiosa non verso una vacua disperazione ma verso la riflessione filosofica a tratti impietosa: «era in procinto di svanire per sempre, non solo dalla vita degli altri ma anche da se stesso. Per Cristo fu meno difficile, pensava, perché per lui la morte era un passare ad altra vita, qualcosa di più reale di un semplice eufemismo. Ma per l’uomo c’è davvero un’altra vita? Ora non percepiva più con sicurezza quello che l’educazione gli faceva credere certo. Il nostro corpo ha, nella percezione, un sentire meno meccanico della mente dogmatica, come quando ha una sete terribile laddove la mente dice che assimilare acqua è fondamentale alla vita». 

Occorre rilevare che quasi periodicamente l’interesse per la figura di Lutero si riaccende e produce frutti che investono variamente gli aspetti di questa figura. Ma, anche limitandoci agli ultimissimi decenni, si nota che il carattere di queste opere è freddo: non dico poco partecipe, che può non essere una colpa, ma certo poco propenso all’indagine. In opere romanzesche o teatrali, quindi prive (talvolta palesemente) di intenti storiografici, si è generalmente usato Lutero come uno sfondo di poco conto, come a giustificazione, oppure come rigido manichino al quale fare recitare qualsiasi parte talvolta in autentico urto con il buon senso. Nel racconto di Bertoldo la figura di Lutero è viva, sempre presente e a suo modo ancora combattiva anche se non è egli il vero protagonista. L’autore ha una precisa visione del mondo che manifesta e difende con coraggio (naturalmente derivante in parte anche da fatti di cronaca che l’autore poi traspone), si raggiunge una profondità e soprattutto si realizza un progetto di indagine che ha dell’ammirevole, e che situa questo libro in una posizione di rilievo rispetto a volumi che hanno goduto di maggiore pubblicità. 

In Anschluss si assiste ad un ribaltamento cronologico e ottico: in un futuro in cui l’Austria è vittima di una nuova annessione tedesca, la vicenda pubblica, politica fa da sfondo alla vicenda privata nella quale i personaggi misurano la loro piccolezza e le loro forze. Fanno inoltre comparsa due nuovi Karl ed Helene, questa volta però distanti vittime di una fragile storia fatta di apprensioni, dubbi e meschinità, ben lontana dagli idillii del precedente racconto.

Quanto detto per il Lucifero vale anche per questo secondo racconto (o secondo tempo), e sarà sufficiente la lettura di poche pagine per rendersi conto di come tutto (non si fraintenda il termine) sia “sporcato di realtà”: qui non è più possibile anteporre il filtro dei secoli trascorsi: in questo futuro che ha tutte le caratteristiche del presente, se prima poteva essere mancanza di sensibilità ora un tale atteggiamento sarebbe solo incoscienza. La chiara sensazione è che urge immedesimarsi nei personaggi non come se si leggesse un libro ma come se si guardasse in una sfera di cristallo (a voler credere alle chiaroveggenti, naturalmente). 

Tutto è cambiato di segno, ma il valore assoluto non è mutato. Dove prima stavano dispute teologiche, per quanto in secondo piano, ora stanno discussioni familiari talvolta miserrime ed efficacemente “quotidiane” su figli voluti e non, padri incerti e punti esclamativi di troppo che assumono la parte del protagonista. Ad intarsio una vicenda di guerra certo tragica, ma nel suo “particolare” di eventi minimi, personalizzati, come tracce terribili perché lasciano presagire la presenza del mostro. Ad un Thomas attivo e responsabile fanno da contraltare un Bullange che «aveva, su tutto, un identico pensiero, che non era propriamente un pensiero: mangiare, e lentamente. E senza ferire, possibilmente, quell’azione necessaria alla vita con delle riflessioni, sempre inducenti alla morte», un uomo «profondo quanto il suo sacco digerente», e Leer, autore di una missiva che darà origine alla storia. Ma fra riflessioni amaramente sarcastiche e la sensazione di un mondo in cui amare è ormai ben difficile («amare, qui, può essere una colpa...»), nel personaggio di Leer si profila con improvvisa chiarezza la sagoma di Müntzer: «a Löthar sono luccicati gli occhi, grandi, belli. Farle saltare tutte le colonne si deve. Mi sono sporto sul tavolo e li ho guardati furente. Non avevo mai pensato veramente a uccidere. Avevo solo pensato di prepararmi a farlo». 

Sulla conclusione della vicenda ancora una volta non diciamo nulla, perché sciuperemmo un momento in cui con eleganza si chiude più di una storia ed una estrema traccia di grande amarezza - ma non riesco tuttavia a ritenere che ciò sia stato deciso “con pessimismo” - interrompe un sentiero per lanciare un ponte verso un altro futuro e, chissà, un altro passato. 


27 maggio 2001


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Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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Otto Anders