Vico Acitillo 124
Poetry Wave
 
 

Recensioni e note critiche
Giovanna Frene: Immagine di voce
di Giulio Mozzi



in Alias, supplemento del Manifesto, dicembre 1999.

 

      Ho conosciuto Giovanna Frene al Tartan’s Pub di Padova:  un posto dove si può trovare un panino buonissimo – con un perfetto rapporto qualità/prezzo – tra l’una e le due di notte. Allora tenevo dei corsi a Treviso, il martedì, tornavo da Treviso all’una di notte, morivo di fame e non avevo voglia di farmi da mangiare. Ergo, andavo al Tartan. Per fatti suoi, Giovanna Frene passava talvolta di là, il martedì, verso l’una di notte. La Sandra Bortolazzo (altra nottambula) me la presentò, e vualà. Questo avveniva due o tre anni fa.
 

      Ora Giovanna ha fatto un libro di poesie che si intitola Immagine di voce (Antonio Facchin Editore, Roma). A me è piaciuto molto. Non mi faccio scrupoli a recensire il libro di poesie di un’amica perché, si sa, in Italia la circolazione della poesia è ultrasotterranea. L’ottanta per cento dei libri di poesia che ci sono, puoi averli soltanto se chi li ha fatti te li regala (o te li vende, che sarebbe più giusto). Poi quella con Giovanna è un’amicizia tutta interna alla scrittura (non è una diminuzione: è una specificazione) e quindi la cosa è meno inopportuna.
 

      Parecchie di queste poesie, non le capisco tanto. Però sono sicuro che sono belle. Voglio dire, che percepire la bellezza di una cosa e capire una cosa sono, almeno per il mio cervello, due faccende ben distinte. Ce n’è alcune, ad esempio, che parlano di persone morte: di corpi di persone morte (familiari, parenti). Una s’intitola Descrizione, e racconta ciò che si fa a un morto per prepararlo al suo futuro destino. “Gli pongono le mani attorno al sesso  a ogiva/per prima cosa mentre è ancora seminudo./Ha gli occhi spalancati e non prova vergogna./(…)/Per seconda cosa mentre è ancora disteso/gli puliscono il corpo con una spugna morbida/sostenendo chi la schiena chi le braccia perché non si affatichi./(…)/Per terza cosa volevo dire/ ora che sono vestito     che non riesco a parlare/con questa benda attorno alla testa e non posso/vedere con le palpebre così abbassate/(…)”. Leggendo questo mi sono venute in mente molte cose: a. che non è facile guardare in questo modo un corpo morto, specie se è il corpo di una persona amata o di un familiare, cioè di una persona con la quale si condivide proprio il corpo; b. che ancora e ancora, eternamente, una delle cose che la poesia fa è mettersi davanti ai tabù, e affrontarli coi suoi mezzi specifici; c. che questa voce che qui parla somiglia alla voce di Antonio Porta: al modo che aveva Antonio Porta di dire cose, cose e cose (io devo moltissimo ad Antonio Porta: i suoi libri mi hanno cambiato la vita). 
 

      Ma Giovanna possiede molte voci. La prima cosa che si nota, sfogliando il libro, è che c’è una varietà di soluzioni visive. Testi dispersi nella pagina e testi compressissimi, vuoti e pieni, versi lunghi e versi corti, interlinea variabili e così via. Questo dà un po’ un’impressione di caos. D’altra parte, se crediamo al titolo, queste parole non sono solo voce ma anche immagine, così che ha senso guardare le pagine ancora prima di mettersi a leggerle. Ma poiché citare un’impaginazione è difficile, continuo a citare dei versi. “Dentro, esiste un momento in cui della morte/non si ha sentore. È appena al principio: prima assenza/del dolore. Poi, senza transizione,/l’immortalità si sfascia su se stessa/comprime la carne, l’addossa alla parola/si cerca la sola cosa che non esiste/si attende senza amore che finisca questa lunga/apparenza (…)”. Sono rimasto esterrefatto, leggendo “l’immortalità si sfasci su se stessa”. Lo so che non bisognerebbe innamorarsi dei singoli versi o delle singole immagini (ma è un’immagine, questa? O è qualcosa più intellettuale?), ma non si può passare oltre. Provate a guardare, vi prego, questa immortalità che si sfascia su se stessa, comprime la carne. (Fate una verifica: pensate: la mia immortalità, comprime la mia carne). 
 

      Una cosa notevole di queste poesie è che somiglino a Giovanna. Io le leggo, le guardo, e mi sembra di sentire e vedere lei: la sua voce, i suoi movimenti della testa e delle mani, la postura particolare della sua testa – una certa rigidità –, il suo modo di girare le frasi nella conversazione, di fare la punteggiatura con interiezioni o con le dita. C’è una cosa che quando succede è miracolosa: quando una persona riesce a produrre un oggetto perfettamente letterario che, nel contempo, sembra un brano di conversazione, una sbobinatura. A Giovanna questo succede, ogni tanto, con più o meno forza, non sempre, ma accidenti!, lei è una di quelle persone alle quali questa cosa ogni tanto succede, e questo non è uno scherzo. Queste persone vanno sorvegliate, mi pare.
  Questo è tutto. Giovanna Frene,  per essere precisi, è uno pseudonimo di Sandra Bortolazzo.

10 gennaio 2001


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Immagine:
Antonio Belém, Phorbéa, Napoli 1997


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Otto Anders