VICO ACITILLO 124 - POETRY WAVE
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Direttore: Emilio Piccolo



Sans passion il n'y a pas d'art

Calamus
I poeti di Otto Anders


J. Rodolfo Wilcock

   
  1. Forse l'anima è divina, ma non è indispensabile
  2. Giardino botanico
  3. Nella sua culla malodorante il bambino allunga la mano
  4. Nonostante i trionfi della scienza applicata
  5. Ospite cara del mio corpo
  6. Pastorale
  7. Notte tranquilla
  8. Visioni e desideri della notte
  9. Il mondo
10. Alla vita
11. Voglio paragonarti soltanto al vento
12. Se questo istante fosse l’eternità immutabile
13. Ah chi di noi un giorno non è stato
14. Quant’era bella e svariata la vita!
15. A mio figlio
16. Al fuoco
17. Fuori del limbo non c'è eliso
18. Il creatore crea dei segnali
19. Gemevano, piangevano, trascinavano
20. Uno strato di creta biancastra
21. Vuoto, dio, nulla, sono nomi di cose
22. Comunque sia, questo mondo è per te
23. Quando tu, mia poesia, leggi poesia
24. Vieni con me non dico, dico portami
25. Eh no, voi paladini, che state a fare

Biografia
Bibliografia
Testimonianze


1. Forse l'anima è divina, ma non è indispensabile

Forse l'anima è divina, ma non è indispensabile
quanto il corpo in cui dimora e ch'è la sua cagione.
alla prima infanzia in poi questo corpo è la prigione
dell'anima che fermenta come una massa malleabile
per finalmente impietrirsi nelle forme più strane,
dall'uccello melodico fino alle peggiori iguane;
ma sempre scomodissima perché non riesce a uscire
da un corpo inadeguato e sempre meno forte,
il che provoca disordini difficili da guarire,
le complicate nevrosi che accelerano la morte.

2. Giardino botanico

Ti ricordi quell'albero diletto,
cielo dei pomeriggi verdi e gialli?
Era una quercia, era ospitale ed era
come un albergo variamente inciso
dagli avventori di altre primavere.
Noi non vi abbiamo scritto il nostro nome;
eppure quando tutto sarà morto
non rimarrà il ricordo di due ombre
che un giorno si baciavano le mani,
anche se le ombre non sono più quelle?
Le domande retoriche non trovano risposta.
Per meglio rivederti mi allontano:
così giovane, come una barca al sole.

3. Nella sua culla malodorante il bambino allunga la mano

Nella sua culla malodorante il bambino allunga la mano
per prendere qualche oggetto di solito troppo lontano
che la sua mente nebbiosa considera interessante;
ed è tutte le persone possibili in quell'istante.
Poi, col tempo, andrà escludendo molte personalità,
rifiutando o trascurando migliaia di possibilità:
non sarà prete né artista né meccanico d'officina,
non sarà un esploratore né emigrerà in Palestina,
nemmeno sarà la copia di una persona esistita;
come ogni essere del mondo dovrà vivere la sua vita.

4. Nonostante i trionfi della scienza applicata

Nonostante i trionfi della scienza applicata
gli strumenti migliori per osservare l'universo
sono ancora la penetrante lampada del verso,
la musica, la voce di una gola privilegiata,
oppure nella penombra delle candele sparse
il pulpito cosmatesco di diorite incrostata;
qualsiasi luce indicante dove un pensiero arse,
semplici torce o splendidi lampadari,
monasteri carpatici tra i boschi secolari,
rune d'Islanda con principi bruschi,
falli d'ambra nella foresta, sarcofaghi etruschi.
Alla luce di questi lumi l'uomo si muove più sicuro,
vede i tramonti, vede le rive del mare,
e pronuncia parole il cui senso oscuro
gli si comincia infine a rivelare.

5. Ospite cara del mio corpo

Come ogni re si fa una reggia nuova
ognuno deve costruirsi una morte
per sé e per i suoi cari.

Un padiglione di diporto o caccia,
un mare verde senza avvenimenti
o un luogo di penitenza.

Nessuno tollera la decomposizione
dell'anima che non si può pensare
fuori dal corpo vivo.

Tessuta di materia e di parole
dove vai, così fragile e labile,
anima quando muori?

6. Pastorale

C'è un vetro in questa stanza, una finestra
di vetro opaco e resistente. Il sole
traccia sul vetro l'ombra di una pianta
e il rapido percorso di una mosca
in cicliche figure ricorrenti;
un cane dà la caccia a una gallina.
E dietro il vetro azzurro e verde, io.
Alla mia destra un muro di mattoni,
stipiti, soglia e il vano di una porta
aperta sul giardino e il cielo intenso
solcato di eucalipti, pini, ailanti,
giovani querce, aerei,
voci di uccelli e piante di lillà,
il mio fiore diletto
se più che gli altri ti somiglia.
Il sole muove le ore,
la crescita fomenta delle piante,
trascina le ombre, origina tramonti
e dà corso alla notte.
E a mezzogiorno allaga i prati gialli.
Volgo lo sguardo verso la città,
il gesto involontario degli assenti.
Un uomo falcia l'erba del giardino;
romba un motore, tubano colombe,
ruote, invisibili bambini, cani,
e il falciatore; ti amo
come le lente nuvole nel cielo
tranquillamente superiori.

7. Notte tranquilla

La punta delicata delle tue dita, il finissimo
silenzio delle mie labbra che su di esse
trova il brillìo delle acque, la luna
che sorge da uno stagno di larghe foglie;
più in alto passa il vento, per gli alberi,
e nel cielo la notte.

                             Adesso guarda
come è dolce la vita, come si allontanano
le orbite eteree abbandonando
una luce sulla nostra fronte.

                                            Io ti amo
e le ore salgono; ascolta il fruscìo
sconosciuto della notte e infinito.
Lentamente, nelle mie braccia, senza turbare
l’eternità che l’aria sta formando
con i suoi cerchi immobili, contempla
il pallido riflesso che ondeggia tra le foglie,
questo istante che siamo sulla terra,
sospeso.

       Lassù, per gli spazi azzurri
vagano suoni leggeri, e le stelle.

8. Visioni e desideri della notte 

Con diamanti sulla testa,
con una rete di diamanti che brilla come l’acqua,
rapidamente passi per l’etere trasparente
con bagliori e con fiamme;
il vento e l’armonia ti hanno cinta di nuvole,
la tua bellezza è eterna e si ripete tra le stelle.
Ma i miei occhi non vedono, soltanto ascolto
vaste ali che muovono lo spazio.
Vivere, morire, tutto è un fumo grigio
quaggiù, e il mio nome giace in fondo a un lago;
debbo piangere davanti a un fiore, sapere che mai,
mai più ti vedrò. Oh baciarti, oh le mie forze
che strappano i rami per piangerci sopra!
Guarda l’autunno già, è da molto che aspetto,
forse le foglie nuove vorranno vedermi ai tuoi piedi,
sui prati del cielo, molto lontano.

Traversa la notte, l’autunno, illuminami
come l’acqua che versa il suo chiarore sulle pietre;
ho tanto sofferto, tanto, tutti sono stati
così crudeli con me. Oh l’aurora, l’aurora
che già prende il volo sul mare!

9. Il mondo

Come sei puro e delicato, o mondo!,
con paesaggi notturni e con aurore,
con giornate e con sere riposate,
austero e pieno di un ardore fecondo.

Come sei vasto, apatico e profondo;
con che rigore accogli i nostri sguardi,
e ignori le parole pronunciate
da una bocca che cambia in un secondo!

Nulla diranno che possa commuoverti;
nulla alle stelle può recare danno,
abituate a guardare la stessa morte

che l’uomo attiva e ignaro incoraggia
sperperando i suoi fuochi in vani alterchi
e facendo una vita turbolenta.

10. Alla vita

Come nel suono colto delle migliori
parole che descrivono l’universo,
c’è un piacere così alto e diverso,
oh vita, nei tuoi rapidi colori,

che in un tempo infinito sognatori
noi vorremmo guardare quel disperso
delirio che ripeti come un verso
riempiendoci lo sguardo di splendori.

Che mirabile onore è l’ondeggiante
principato dell’abito che spieghi,
che paesaggio imperiale è il tuo Presente!

Non potrò mai ringraziare abbastanza
che da un pugno di terra umida e cieca
tu mi abbia fatto così vivo e amante. 

11. Voglio paragonarti soltanto al vento

Voglio paragonarti soltanto al vento
che vola per l’aria e rallegra le foglie,
e dirò che la mia anima nel vento si stende
mentre i tuoi gesti aprono fiumi diversi di luce.

È lo stesso rumore con cui il sole attraversa
soavemente le nuvole e le sfere azzurre
il tuo nome, ed è il nome ch’io do al silenzio
notturno, mentre girano le stelle del cielo
con passi maestosi.

12. Se questo istante fosse l’eternità immutabile

Se questo istante fosse l’eternità immutabile, 
sempre, sempre davanti a me il tuo corpo così bello,

come lontane musiche che salgono esaltate
tra luci cangianti e vapori iridati!

Voglio chinare la fronte e baciarti le mani
mentre dietro ai tuoi occhi passa un giardino incredibile,

un luogo voluttuoso dove il pensiero
si immerge nelle acque dolcissime e in un sogno.

E accostarmi alle tue labbra, e conoscere la morte,
uno spazio di angeli, l’oblio.

13. Ah chi di noi un giorno non è stato 

Ah chi di noi un giorno non è stato 
come una statua di alabastro 
illuminata interiormente, 
nuotando senza accorgersi 
sulla schiuma iridata delle ore!
Come un orecchio al sole trasparente 
il nostro corpo acceso era venato 
di rosa e risplendeva. 

14. Quant’era bella e svariata la vita! 

Quant’era bella e svariata la vita! 
Come si succedevano velocemente 
le gioie e le delusioni, 
come si alternavano le stagioni, 
quando il tempo ci bagnava nella sua corrente! 
E talvolta bastava il volo di un uccello 
a disegnare in cielo la vastità del tramonto. 
Ora invece che cosa siamo? 
Solo un profumo di fiori appassiti, 
una fotografia strappata; 
non abbiamo lasciato una traccia sugli specchi; 
nei fiumi in cui bevemmo le acque sono mutate 
e gli alberi che amavamo sono ormai tutti abbattuti. 

15. A mio figlio

Abbi fiducia nella vita 
e non nelle ideologie; 
non ascoltare i missionari 
di quest’illusione o quell’altra. 

Ricorda che c’è una sola cosa 
affermativa, l’invenzione; 
il sistema invece è caratteristico 
della mancanza d’immaginazione. 

Ricorda che tutto accade 
a caso e che niente dura, 
il che non ti vieta di fare 
un disegno sul vetro appannato, 

né di cantare qualche nota 
semplice quando sei contento; 
può darsi che sia un bel disegno, 
che la canzone sia bella: 

ma questo non ha certo importanza, 
basta che piacciano a te. 
Un giorno morrai; non fa niente, 
poiché saranno gli altri ad accorgersene. 

16. Al fuoco

Fuoco, compagno, caro amico dell’ombra, 
ardi e ti spegni e grazie a me riprendi, 
te disperato che bruceresti il mondo 
e qui da solo bruci te stesso, in te 
raccolto come Elsa Morante all’alba 
quando accende la pira di ogni giorno 
e si dà in pasto sulla brace lenta. 
Figlio del lampo ora sei figlio dell’uomo, 
bisogna alimentarti, gatto rosso. 
Diventa tigre, esci, cresci, divora 
tutto se hai tanta voglia, facci ceneri, 
che ognuno dal suo fuoco solitario 
sia morso e fatto bello, fatto fiamma, 
si congiunga all’incendio originale. 

17. Fuori del limbo non c'è eliso

La società ti insegna: questo è bello, 
è buono, è vero, e non devi far quello. 

A ciascun uomo offre già pronte l’etica, 
la metafisica, la logica e l’estetica. 

Di quando in quando, però, spunta un veggente 
che spiega agli altri che non è vero niente. 

Poi scompare, e la società si adopera 
a travisare il senso della sua opera. 

È strano infatti che essendo lei noi stessi 
le stia così a cuore il farci fessi. 

Quale comunità del mondo animale 
insegna ai suoi l’arte di farsi male? 

Ma gli animali non possiedono, è vero, 
la facoltà di esprimere il pensiero. 

18. Il creatore crea dei segnali

Il creatore crea dei segnali 
sul nulla che non muta per firmare 
con la sua firma quella nullità, 

e questi segni che segnano il nulla 
cantano il canto della propria morte 
e il nulla vibra di mortalità. 

Piante, animali e sassi di quel canto 
colgono solo la nota istantanea 
ma l’uomo che ha memoria coglie il canto. 

È un segnale che interpreta i segnali, 
e davanti all’enigma di una nota 
che coglie le altre note separate, 

giunge alla sola soluzione possibile, 
insita nel sistema segnaletico: 
il creatore che segna il nulla è lui. 

Così per lui un coro di galassie, 
di soli, di pianeti e di comete, 
di terre e mari e nuvole e nazioni 

e di atomi infiniti circolanti 
nel turbine del nulla nominato
canta il canto pomposo del creato. 

Lui non si accorge ch’è una sola nota, 
la nota muta che emette l’entropia 
quando ha raggiunto lo zero assoluto. 

19 Gemevano, piangevano, trascinavano

Gemevano, piangevano, trascinavano 
lunghe cordate di masserizie usate 
per deserti di pali di cemento, 
dovevano salire sopra un colle 
e calare nel nulla dall’altra parte, 
la passeggiata si chiamava vita 
e molti si fermavano a raccogliere 
biglietti usati di diecimila lire 
per sventolarli tra i pali di cemento 
pur gemendo, piangendo, trascinando 
lunghe cordate di masserizie usate, 
su per il colle curvo, e chi franava 
dall’altra parte volontariamente 
o involontariamente, sorprendeva, 
perché a tutti piaceva trascinare 
lunghe cordate di masserizie usate 
su per il colle gemendo e piangendo 
e sventolando i biglietti raccolti 
che prima di franare regalavano, 
contenti della bella passeggiata, 
peccato che finisse così presto, 
dover lasciare i pali di cemento 
e la cordata di masserizie usate 
ma altri sorgevano dal nulla impazienti 
di salire sul colle trascinando 
altre cordate di masserizie usate 
che si impigliavano nei pali di cemento 
e di raccogliere i biglietti buttati 
da quelli che erano già sprofondati, 
e che nulla diceva che non fossero 
gli stessi che sorgevano da questa parte. 

20. Uno strato di creta biancastra

Uno strato di creta biancastra, 
una fascia di sabbia argillosa, 
uno strato di polvere vulcanica, 
un deposito di detriti marini, 
una vena calcarea traforata 
da infiltrazioni di alto tasso salino, 
un sinclinale cretaceo rosso 
su un letto di morene del precambriano, 
un considerevole manto di lava 
che preme sull’argilla resa schisto, 
uno strato di puri silicati 
sopra una vena di gneiss metamorfico, 
una colata di granito magmatico, 
un’irruzione di tardo devoniano, 
altro granito ricco in feldispati, 
ère intere che gravano sulle ultime 
tracce di vita su questo pianeta. 

21. Vuoto, dio, nulla, sono nomi di cose

Vuoto, dio, nulla, sono nomi di cose, 
messaggi chiari privi di rumore, 
ma se il rumore aumenta e la parola 
si sgretola, si disfa, si rabbuia, 
appare il nome dell’innominabile, 
di ciò che è fuori del linguaggio, 
non vuoto come estrema rarefazione 
bensì futy gksatyrj rith islej gkbos 
non dio come caos ordinato 
ma iostpe net ooruti jamozp ner 
non nulla come assenza di qualcosa 
ma oefryth ki loppru tirp plutje lé 
non morte come assenza di qualcuno 
ma uero thopa jutfop sertyved. 

22. Comunque sia, questo mondo è per te

Comunque sia, questo mondo è per te.
Mi sono domandato molte volte 
a che serviva, e non serviva a niente, 
ma adesso grazie a te ritorna utile. 
Fa il conto della merce abbandonata 
da Dio e prendila, l’hanno fatta per te 
millenni di uomini che non ti conoscevano 
ma che cercavano di prefigurare 
in templi e tombe di roccia e biblioteche 
uno stupore come quello che effondi 
quando sorridi e fai fermare il tempo 
e tutti ammutoliscono rapiti 
e ti alzi e dici, « io me ne vado a letto ». 
Dormi, al risveglio sarà lì il tuo retaggio: 
una città che fu famosa assai, 
un fiume sporco cantato dai poeti, 
il cinema dove hanno ucciso Giulio Cesare; 
e intorno valli, montagne, mari, oceani, 
e capitali, e continenti e selve, 
e piramidi, e versi, e adoratori 
della tua forma esterna o quella interna
e in alto il cielo e il sole e le stelle e la luna 
e sulla terra le bestie ubbidienti 
a te che infine vieni a giustificare 
la loro straordinaria varietà. 
È tutto tuo e non finisce mai. 

23. Quando tu, mia poesia, leggi poesia

Quando tu, mia poesia, leggi poesia, 
si oscura il cielo di una luce verde, 
la gente sfugge la riva del mare 
per un senso remoto di tempesta 
o di contrasto tra gli elementi, 
vampe si inalberano sui fili dei tram, 
e un gran silenzio cala sulla città: 
è la poesia che contempla se stessa. 
Leggi parole di un tempo scomparso, 
di un presente che crolla senza sosta 
velocemente nell’informe passato, 
leggi di re e corone, giardini e guerre, 
tu che sei la corona di ogni impero 
e il giardino del mondo conosciuto 
e la guerra dei sensi della natura, 
leggi, « chi crederà i miei versi in avvenire 
se dico adesso tutto il tuo valore? » 
e accade in quel momento che quei versi 
come una freccia scagliata nei secoli 
raggiungono chi un giorno li ha ispirati. 
E allora il buio verde si fa totale, 
la gente si rintana, sopraffatta, 
e in un silenzio come di terremoto 
si alza la luna sui Castelli Romani 
e lentamente volge tutto all’azzurro, 
mentre tu, mia poesia, leggi poesia.

24. Vieni con me non dico, dico portami

Vieni con me non dico, dico portami. 
Davanti a un Santo o a una Madonna chi 
direbbe, « vieni, andiamo in Tunisia »? 
Ma se l’immagine se ne andasse in giro 
chi non vorrebbe accompagnarla, chi? 
A trenta metri vedo molto bene, 
vorrei seguirti sempre a trenta metri, 
e a volte, presso un fiume o una fontana, 
avvicinarmi a tanto irraggiamento, 
se dormi, se riposi, se sorridi, 
per poi la sera chiudermi nel buio 
e accertare che splendo anche da solo 
e che al di sopra del registratore 
col nastro inciso con la tua voce 
si addensano apparenze luminose 
che in altri tempi si chiamavano angeli, 
forme sospese, spiriti apprendisti 
che da te vogliono in quei rari paraggi 
imparare purezza e tenerezza, 
ritegno, verità e altre arti angeliche 
mai viste insieme, né in quei luoghi né altrove, 
o come si asservisce una nazione 
abbassando le palpebre semplicemente. 

25. Eh no, voi paladini, che state a fare 

Eh no, voi paladini, che state a fare 
e personaggi veloci della storia 
che vi perdete la cima della scala 
e non rendete onore a chi la onora? 
Soltanto gli Hohenstaufen dovranno farlo? 
Venite a Roma, cavalieri d’Artù, 
prodi di Orlando, mussulmani rabbiosi, 
voi tutti che viaggiate sempre a cavallo, 
re, masnadieri, paggi, granmaestri, 
se intasate la strada non fa niente, 
mongoli di Samarcanda, vandali sozzi, 
crociati del Baltico, mòravi, sciiti, 
e voi conquistatori delle Indie, 
predoni di Bahrein e di Macao, 
a mezzanotte voglio vedervi tutti 
fare le corse intorno al Colosseo, 
fare un torneo, o quel che preferite, 
per far vedere come era rozzo il mondo 
finché non è calata questa luce 
che più mi abbaglia quanto più mi rischiara, 
questa improbabile mutazione umana, 
questa fonte energetica inesauribile, 
questa gnosi, o sophia, o trascendenza, 
questa persona fragile e sicura 
che abita purtroppo così lontano. 

 

Biografia

Juan Rodolfo Wilcock nasce a Buenos Aires il 17 aprile del 1919, da padre inglese, Charles Leonard Wilcock, e da Aida Romegialli, argentina, di origine italiana e svizzera.

Compie gli studi regolari e frequenta la facoltà di Ingegneria Civile nell’Università di Buenos Aires.

Nel marzo del 1940, la sua prima raccolta di poesie, Libro de poemas y canciones, ottiene il Premio Martín Fierro dalla Società Argentina degli Scrittori, e poi, nel marzo del 1941, ottiene anche il Premio Municipal.

Tra il 1941 e il 1942 ha inizio l’amicizia con Silvina Ocampo, Adolfo Bioy Casares e Jorge Luis Borges.

"Questi tre nomi e queste tre persone - scriverà Wilcock, anni dopo, verso il 1967 - furono la costellazione e la trinità dalla cui gravitazione, in special modo, trassi quella leggera tendenza, che si può avvertire nella mia vita e nelle mie opere, a innalzarmi, sia pur modestamente, al di sopra del mio grigio, umano livello originario. Borges rappresentava il genio totale, ozioso e pigro, Bioy Casares l’intelligenza attiva, Silvina Ocampo era tra quei due la Sibilla e la Maga, che ricordava loro in ogni sua mossa e in ogni sua parola la stranezza e la misteriosità dell’universo. Io, di questo spettacolo inconsapevole spettatore, ne rimasi per sempre affascinato, e ne conservo il ricordo indescrivibile che potrebbe conservare, appunto, chi ha avuto la felicità mistica di vedere e di udire il gioco di luci e di suoni che costituisce una determinata trinità divina”.

Dal 1942 al 1944 dirige la rivista letteraria Verde Memoria, e poi, dal 1945 al 1947, la rivista Disco.

All'inizio del 1943 si laurea in Ingegneria Civile, e quindi entra come ingegnere nelle Ferrovie dello Stato. Partecipa alla ricostruzione della ferrovia Transandina e alla costruzione della linea ferroviaria San Rafael-Malargue. Si dimette verso la metà del 1944.

Nel 1945 pubblica, a proprie spese, due libri di poesie: Ensayos de poesía lírica e Persecución de la musas menores.

Nel 1946 pubblica Paseo sentimental, che ottiene la Fascia d'Onore 1946 dalla Società Argentina degli Scrittori.

Verso la fine del 1946 pubblica Los hermosos días.

Nel 1951 intraprende un lungo viaggio in Europa in compagnia di Silvina Ocampo e di Bioy Casares, e arriva per la prima volta in Italia.

Nel 1953 esce il suo sesto libro di poesie Sexto.

Tra il 1953 e il 1954 risiede a Londra, dove lavora come traduttore dell'Ufficio Centrale di Informazioni, e come critico letterario, musicale e artistico del Servizio Latino Americano della B.B.C. Ritorna a Buenos Aires.

Nel 1955 si trasferisce a Roma, dove insegna letteratura francese e inglese e collabora all'edizione argentina dell'Osservatore Romano, il giornale del Vaticano.

È stato critico letterario della Prensa di Buenos Aires, e ha collaborato su quasi tutte le riviste letterarie importanti ispano-americane. Ha tradotto in spagnolo più di trenta libri dall'inglese, dal francese, dall'italiano e dal tedesco.

Nel giugno del 1957, Wilcock ritorna in Italia e si stabilisce a Roma. Pubblica articoli vari, saggi, racconti, poesie, sulla rivista Tempo Presente, e poi sul settimanale Il Mondo, di Mario Pannunzio. In questo primo periodo diventa amico, oltre che di Nicola Chiaromonte, di Elsa Morante, di Alberto Moravia, di Ennio Flaiano, di Elémire Zolla, di Roberto Calasso, di Ginevra Bompiani e di Luciano Foà.

In seguito scriverà anche per il giornale La Nazione di Firenze, per il settimanale L'Espresso, e per i quotidiani romani La Voce Repubblicana, Il Messaggero, Il Tempo, e per altre riviste letterarie.

“Credo che se dovessi aiutare qualcuno a capire che sono o chi sono come scrittore - Wilcock scriverà di se stesso, rispondendo a un’intervista - rileverei due punti per me fondamentali: sono un poeta, appartengo alla cultura europea. Come poeta in prosa, discendo per non complicate vie da Flaubert, che generò Joyce e Kafka, che generarono noi (tutto ciò è da intendere allegoricamente, perché quelle persone rappresentano epoche, modi di pensare). ‘Flaubert fu il primo a consacrarsi alla creazione di un’opera puramente estetica in prosa’, scrisse Borges; e scrisse lo stesso Flaubert: ‘Le combinazioni della metrica si sono esaurite; non quelle della prosa’. Come scrittore europeo, ho scelto l’italiano per esprimermi perché è la lingua che più somiglia al latino (forse lo spagnolo è più somigliante, ma il pubblico di lingua spagnola è appena lo spettro di un fantasma). Un tempo tutta l’Europa parlava latino, oggi parla dialetti del latino: la passiflora in inglese si chiama passion-flower, per me le due sono la stessa parola. Quindi la lingua ha un’importanza relativa; quello che conta è di non cadere nel folclore, che è intrasferibile. Per me l’inglese è un po’ troppo folcloristico, ormai; che dire poi dell’inglese degli Stati Uniti, quando prende il volo per conto suo e si appiattisce in centoventicinque parole. È come se a un giocatore di scacchi gli dicessero: ‘Qui si gioca a modo nostro, con un solo cavallo e senza torri’. Beckett, forse non se ne accorge, ma scrive quasi in latino; il suo poema Sans, del ‘70, va più indietro nel tempo, sembra sumero, anzi pittografico”.

Nel 1975, Wilcock chiede la cittadinanza italiana. Con decreto del Capo dello Stato, gli viene concessa post mortem il 4 aprile 1979.

Wilcock muore il 16 marzo del 1978 nella sua casa di campagna, nel Comune di Lubriano, in provincia di Viterbo, nell’Alto Lazio. È sepolto a Roma, nel cimitero acattolico vicino alla Piramide. 

Roberto Calasso, con lo stile limpido e vivace che lo ha sempre caratterizzato, fa un ritratto di Wilcock molto efficace e suggestivo. È il caso di citarlo:

Come epilogo delle sue Obras completas, Borges ha dettato la voce Borges di una Enciclopedia Sudamericana del 2074, che così comincia: “Autore e autodidatta…”. Juan Rodolfo Wilcock, ospite singolare dell’Italia, della sua lingua, della sua letteratura, recentemente scomparso, era forse l’unico nostro scrittore da cui ci si sarebbe potuto aspettare una voce di enciclopedia immaginaria su se stesso di altrettanta delizia. Ma ogni imitazione, in questo caso, sarebbe vana: a noi non rimane che ricordare, con rimpianto, come Wilcock è apparso in questo Paese, che si è comportato con lui un po’ come l’Italia fascista col grande incisore Escher: se Escher seppe vivere per anni in Italia senza farsi nominare da nessuno, Wilcock è riuscito per anni a non farsi includere nei listini di Borsa dei nostri ponderati recensori.

Era arrivato nella Roma degli Anni Cinquanta come uno scrittore argentino, affine a Borges e suo amichevole congiurato, insieme a Adolfo Bioy Casares e a Silvina Ocampo: ma tutto questo era allora in parte troppo poco conosciuto, in parte troppo imprecisamente favoleggiato. Perciò la percezione più immediata, e inevitabile, di Wilcock fu un’altra: quella del suo stile. La totale assenza di perbenismo intellettuale, “l’ebbrezza aristocratica di dispiacere”, che provava spesso e grandiosamente, l’ironia in agguato dietro ogni sillaba, l’insofferenza per ogni sorta di “frasi di circostanza” dello spirito - tutto questo fu subito notato, e spesso con qualche timoroso sconcerto. Ma quei caratteri acquistavano il loro vero senso e sapore solo se si procedeva più oltre, fin dove - credo - solo pochi amici si sono spinti: fino a quella eccentrica e solida saggezza, a quella ammirevole autosufficienza che erano nel fondo di Wilcock. “Amava Wittgenstein, la poesia e la lettura del Scientific American” (così, forse, avrebbe potuto descriverlo Marcel Schwob): e questi tre elementi bastavano a dargli un sottofondo di felicità. Sapeva, come pochi, non dipendere dagli altri e dal mondo. Quando si mise a scrivere in italiano, riuscì subito a trasmettere alla lingua quell’impronta che apparteneva al suo gesto, al modo di apparire della sua persona. Così, il suo italiano è come un isolotto tropicale, carico di antica e folta vegetazione, preso nella corrente di un fiume ammorbato dagli scarichi industriali, che scorre in una magra e proterva campagna. Su quell’isolotto troppo pochi, finora,  hanno provato a mettere piede. E non è escluso che, come già altre volte, la fama di Wilcock si riverberi in Italia da fuori, per esempio dalla Francia, dove comincia a essere letto e apprezzato ben di più di troppi illustri scrittori che qui occupano le vetrine.

Wilcock sapeva mescolare felicemente il suo modo di scrivere e il suo modo di vivere: sul Mondo di Pannunzio, per un certo periodo, sostituì Chiaromonte come critico teatrale, e andare a teatro lo annoiava profondamente. Perciò, per un certo numero di settimane, parlò di spettacoli inesistenti, con sobria precisione: e nacque così la figura del regista catalano Llorenz Riber, autore di rare e folgoranti messe in scena, che avevano luogo, volta a volta a Tangeri, Oxford, Latina. La sua impresa più memorabile fu una messa in scena delle Investigazioni filosofiche di Wittgenstein, di cui Wilcock raccontò diligentemente la trama. Sempre sul Mondo, Wilcock firmò per anni articoli sia col suo nome sia con quello di Matteo Campanari. E, negli articoli firmati Wilcock, se la prendeva spesso con le idee di Matteo Campanari, il quale poi rispondeva combattivamente. Ma, a parte queste sue invenzioni più segrete, Wilcock ha scritto di tutto e in svariate forme: è più facile elencare ciò di cui non ha scritto o che non ha tentato piuttosto che l’inverso. Dalla traduzione (magistrale) dell’inizio del Finnegans Wake a quella del teatro di Marlowe, dalle cronache (immaginarie e no) di scienza a quelle di letteratura, dalle riflessioni aforistiche alle più selvagge costruzioni fantastiche (che erano, in certo modo, la sua realtà quotidiana), dalle note enciclopediche alle liriche.

Sì, perché dopo aver pubblicato numerosi libri di poesia in Argentina (ne ricordo uno che si chiama Sexto semplicemente perché è la sua sesta raccolta di versi) Wilcock riuscì anche a mutare pelle in questo - e a diventare poeta italiano. Si tratta di versi tutti da scoprire, e li metterei fra i pochi di questi ultimi anni in Italia che saremo felici di ricordare. Anche perché da essi, dalla loro cadenza, dalla scelta intensamente raffinata, e perciò poco avvertibile, del lessico ci parla direttamente quella serenità, quella libertà da impacci dello spirito, quello stile di vita che non si poteva non amare in Wilcock:

“Vivere è percorrere il mondo
attraversando ponti di fumo;
quando si è giunti dall’altra parte
che importa se i ponti precipitano
Per arrivare in qualche luogo
bisogna trovare un passaggio
e non fa niente se scesi dalla vettura
si scopre che questa era un miraggio”. 

da http://www.wilcock.it/italiano/note_biografiche.htm
 



Bibliografia

Parsifal, Adelphi, 1960, 1974 - Fatti inquietanti, Adelphi, 1961, 1992 - Luoghi comuni, Il Saggiatore, 1961 - Teatro in prosa e versi, Bompiani, 1962 - Poesie spagnole, Guanda, 1963 - La parola morte, Einaudi, 1968 (Poesie) - Lo stereoscopio dei solitari, Adelphi, 1972, 1990 - La sinagoga degli iconoclasti, Adelphi, 1972, 1990 - Il tempio etrusco, Rizzoli, 1973 - I due allegri indiani, Adelphi, 1973 - Italienisches Liederbuch 34 poesie d’amore, Rizzoli, 1974 - L’ingegnere, Rizzoli, 1975 - Frau Teleprocu (In collaborazione con Francesco Fantasia), Adelphi, 1976 - Il libro dei mostri, Adelphi, 1978 - Poesie (Tutte le poesie in italiano), Adelphi, 1980, 1993, 1996 - L’abominevole donna delle nevi e altre commedie, Adelphi, 1982 - Le nozze di Hitler e Maria Antonietta nell’inferno (In collaborazione con Francesco Fantasia), Lucarini, 1985



Testimonianze

Ricordando Rodolfo di Francesco Luti

È straordinario pensare che un poeta come Rodolfo Wilcock abbia usato due lingue diverse e sia riuscito a farlo con la stessa maestria. La poesia, generalmente, è accompagnata con la lingua recepita dall'infanzia, con i suoni e le immagini assorbite da ragazzi. In questo mio scritto "argentino" voglio appunto ricordare la figura di Rodolfo Wilcock che era nato a Buenos Aires nel 1919 da padre inglese e madre di origine italiana. Figura di rilievo nel panorama delle lettere degli anni Sessanta in quanto poeta, narratore, saggista, traduttore, storico del costume e autore teatrale. Wilcock arrivò in Italia nel 1958, dopo essersi laureato in ingegneria nella capitale Argentina, portandosi nel nostro paese il bagaglio di giovane intellettuale e di poeta "allievo" di Borges. 

Wilcock iniziò a collaborare con alcuni quotidiani e riviste tra le quali: "Il Mondo", "La Voce Repubblicana", "Sipario" e "La Nazione" di Firenze. Proprio a Firenze Wilcock venne spesso a trovare il suo amico Eugenio Montale. Il futuro Premio Nobel della letteratura Montale, abitava vicino a Piazza Beccaria di fronte alla sede del quotidiano "La Nazione". La comune passione per la poesia e per le traduzioni era il "piatto fisso" di casa di Montale. E di Montale, Wilcock era anche uno dei più stretti collaboratori, sbrigando il più delle volte il lavoro redazionale del poeta degli "Ossi di seppia".

Certamente Wilcock fu poeta di fine sensibilità crepuscolare, molte delle sue raccolte poetiche vennero pubblicate prima in spagnolo e successivamente da lui stesso furono tradotte in italiano. Si ricordano: "Primer libro de poemas y canciones" (Editorial Sudamericana, Buenos Aires 1940), "Ensayos de poesía lírica" (López, Buenos Aires 1945), "Los hermosos dias" (Emecé, Buenos Aires 1946), "Sexto" (igid. 1953), "Luoghi comuni" (Il Saggiatore, Milano 1961), "Poesie" (Guanda, Parma 1963), "La parola morte" (Einaudi, Torino 1968), "Italienisches Liederbuch. 34 poesie d'amore" (Rizzoli, Milano 1974).

Come romanziere si ricordano "Il tempio etrusco" (ibid. 1973) e dei racconti "Fatti inquietanti" (Bompiani, Milano 1960), "Lo stereoscopio dei solitari" (Adelphi, Milano 1972), "I due allegri indiani" (ibid 1973), "Parsifal, i racconti del 'Caos'" (ibid. 1974), "L'ingegnere" (Rizzoli, Milano 1975), "Il libro dei mostri" (Adelphi, Milano 1978), e "La sinagoga degli iconoclasti" (ibid. 1972) una raccolta di biografie immaginarie.

Il lavoro di narratore rivelò una notevole capacità eclettica che tendeva a coniugare realismo esasperato e qualità fantastica, ironia e crudeltà, senso della sorpresa e gusto erudito, fino al limite di una evidente bizzarria. La sua narrativa era percorsa da un misto singolare di crudeltà, e visionarietà. Sul gusto della citazione erudita e dell'arguzia, negli ultimi anni prevalse una vena di esasperata e cupa amarezza.

Parte delle opere teatrali è raccolta in "Teatro in prosa e in versi" (Bompiani, Milano 1962). Postuma l'edizione de "L'abominevole donna delle nevi e altre commedie" (Adelphi, Milano 1982), "Le nozze di Hitler e Maria Antonietta nell'inferno" (Lucarini, Roma 1985). 

Importante fu anche la sua attività di traduttore: Marlowe, Shakespeare, il Joyce dei "Finnegan's Wake", "Per le strade di Londra" di Virginia Woolf, i suoi capolavori dall'inglese. Poi gli amici Bioy Casares e Jorge Luis Borges; infine Jean Genet e Samuel Beckett. Tutto questo per completare il quadro di una traiettoria significativa per la letteratura internazionale del secolo scorso, un cammino composto da lingue diverse che si sono mischiate fra loro in un impasto letterario che ha espresso uno degli intellettuali più importanti del panorama novecentesco.

Wilcock si spense a Lubriano nella provincia di Viterbo nel 1978. Mi piace ricordarlo nei versi di un suo amico, l'attore e poeta Vittorio Gassman, in una poesia ai più sconosciuta.

Meta-milonga per Rodolfo Wilcock e il suo gatto

Rodolfo Wilcock: non so d'altra mente
più geometrica e più mercuriale;
non so se mai ci fu intellettuale
tanto mortuariamente intelligente.
Non è un caso si fosse formato
con Luis Borges e con Bioy Casares,
alchimisti del dedalo quadrato,
della grande rovina circolare.
Tanto meno è casuale che sia
Parola morte la vetta simmetrica,
la più sua tra le sfide poetiche,
e il paradigma di un'alta pazzia.
Non è un caso che la sua iterazione
si alleasse allo zeugma e all'anàstrofe,
che l'anagramma e l'epìstrofe
suoni in lui naturale scansione;
che da quel criptico ritmo
parole-larve (non parole) nascessero;
«FUTSIRI»… «SERTYVED»… e declinassero
i geroglifici del gran logaritmo.
Non stupisce se in cose e persone
il contatto col suo segreto cifrario
inoculava il germe visionario,
l'assurdo unicum della mutazione.
Nello spoglio salone a Velletri
(parlavano di Marlowe da ore)
sussultò e tacque il Visitatore
entro il guizzo dei moccoli tetri:
perché gli era parso passare
un gatto grosso dalla rossa pancia
e: «Mi annoio!… » imprecare
…«SERTYVED!» con perfetta pronuncia.
«Ma io… ho visto un gatto…» esclamò
stropicciandosi gli occhi. E Rodolfo,
un po' seccato: «È la solita solfa.
Sì, è il mio gatto, che c'è?» bofonchiò.
«Ecco, un gatto… ma è un gatto che parla!»
E il poeta: «Non sempre, però».
Voltò pagina e un blank-verse citò
riprendendo il discorso su Marlowe.

da: http://www.elmurocultural.com/wflorencia05.html


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