VICO ACITILLO 124 - POETRY WAVE
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Direttore: Emilio Piccolo


Sans passion il n'y a pas d'art

Calamus
Ianus

A cura di Giuliana Lucchini


Roberto Pagan

   
Roberto Pagan: Biobibliografia
A proposito di queste traduzioni 
La Casa del sonno  (XI, vv. 592-615)
Orfeo ed Euridice  (X, vv. 8-59)
Apollo e Dafne  ( I, vv. 497-556)

 
A proposito di queste traduzioni 
a cura di Roberto Pagan
 

 Nell’ambito di un’esperienza più volte praticata – tradurre da testi stranieri, antichi o moderni, è sempre un esercizio fondamentale se non altro per affinare il proprio mestiere – le presenti versioni da Ovidio sono nate da un’occasione particolare. Si trattava di fornire a un’amica, l’attrice Giuliana Adezio, impegnata in un convegno di studi sul poeta di Sulmona tenutosi a Edimburgo, alcuni brani delle Metamorfosi da servire a un recital dedicato all’opera ovidiana nel suo complesso. 

Ora proprio delle Metamorfosi – per quanto la cosa possa apparire strana – scarseggiano in Italia le traduzioni moderne di qualche dignità poetica. Era dunque per me lo stimolo per far fruttificare una qualche consuetudine e forse una certa affinità istintiva con un poeta che, celebratissimo nel passato, non ha goduto di grandi simpatie in tempi a noi più vicini. E’ certo che, in un clima di imperante crocianesimo o di sensibilità “frammentista”, Ovidio è stato spesso e frettolosamente coinvolto nel fastidio per tutto ciò che poteva apparire “decorativo” o “barocco”. 

 In realtà, se si tralasciano gli aspetti più appariscenti, e più superficiali, di un’attitudine indubbiamente portata al colorismo e all’ornamentazione, troviamo in Ovidio, e soprattutto nelle Metamorfosi, infiniti tesori di sottigliezza psicologica, mobilità fantastica, varietà di toni espressivi, capacità di orchestrazione musicale. Quasi come un Ciajkowskj – l’accostamento non sembri incongruo – che più rivela le sue native risorse di grande melodista là dove meno cede all’eloquenza e alla retorica del patetico o del monumentale (non a caso le sue partiture per balletto resistono al tempo meglio di un sinfonismo troppo corrusco e declamatorio), così forse Ovidio, quanto più si abbandona all’estro musicale, alla evocazione fantastica e fiabesca, libero da ogni pretesa cosmologica e dottrinaria, tanto più riesce convincente e capace di sincera commozione; anche là dove non manca di quello sguardo un po’ smaliziato, o maliziosamente scettico, che è il portato di una civiltà troppo adulta, già sfiorata dalla “decadenza”. Ma è soprattutto per questo disincanto, questa sottile vena di malinconia, come di chi vorrebbe, e non può, lasciarsi andare del tutto alle consolazioni luminose del mito, è per questo, mi pare, che sentiamo oggi Ovidio più vicino a noi.

 Ora, ammesso che questa sia una delle possibili chiavi interpretative utili a riportare  in gioco l’attualità soprattutto delle Metamorfosi, si trattava naturalmente di restituire l’accennata vibrazione psicologica in ritmi e forme che mediassero tra la fedeltà alla lettera e una dizione moderna, piana e non aulica, e nel contempo memore di una squisitezza espressiva cesellata e assaporata in tutte le sue sfumature, con tutto il lusso di una irrinunciabile cantabilità. Da ciò l’impianto versificatorio fedele a una tradizione umanistica intesa a privilegiare, se non l’endecasillabo tout court, in una sua troppo marmorea monoliticità, l’accento portante dell’endecasillabo,  pur in un più libero ventaglio di soluzioni metriche. E – per quanto concerne la strutturazione sintattica e la resa linguistica – una pronuncia familiare ma non corriva verso eccessi semplificatori, capace di sciogliere i nodi più ostici del testo costituiti spesso da ingombranti richiami mitologici o termini esornativi arcaicizzanti, sfumandoli dove possibile, pur senza misconoscerli o tradirli.

 Il lettore potrà giudicare del risultato. Quanto a me, ho potuto assistere alla replica del recital ovidiano che Giuliana Adezio ha proposto, alla fine dello scorso mese di luglio, sugli spalti di Castel Sant’Angelo a Roma. Ebbene – a rischio di incorrere in un peccato di  immodestia – devo confessare che le parole che avevo messo in bocca al poeta delle Metamorfosi non suonavano in generale malissimo. Se poi in qualche caso si avvicinavano al segno, merito,  senza dubbio, della valentìa dell’attrice.
 

  La casa del sonno  (XI, vv. 592-615)
 

              Sta nel paese dei Cimmerii un monte
  incavato, una spelonca
  profondamente incisa. E’ la dimora 
  inaccessibile del Sonno. Non vi giunge
  il raggio del sole mai né quando sorge
  all’alba né al tramonto o quando
  più splende a mezzodì. Vapora
  su dalla terra una caligine
  nebbiosa, come un alone
  di crepuscolo incerto.
  Non qui il gallo crestato che vegli
  o che chiami l’aurora, non cani
  inquieti che rompano 
  col loro latrato il silenzio, né oche
  più accorte dei cani, non greggi
  o bestie selvatiche o rami
  mossi al soffio del vento, non voci
  o lingue umane che mandino un suono.
  La muta quiete vi posa. Ma esce
  giù dalla rupe un rivolo del Lete
  e la lambisce e col sussurro
lieve sui ciottoli ci induce
al sonno. E all’ingresso dell’antro
fiorisce folto il papavero e altre
erbe vi nascono innumerevoli. Spreme
da quei succhi il sopore
l’umida notte e l’ombrosa 
terra ne irrora. In tutta la casa
non una porta -  girando sui cardini
farebbe rumore - né sulla soglia
un custode. In mezzo allo speco
si leva d’ebano un letto, un giaciglio
di piume d’un solo colore e velato 
di scuro. Lì, sciolte le membra
al languore, il dio stesso riposa:
e intorno confusi ogni forma imitando
i sogni lo cingono fatti di nulla
tanti quante spighe ha una messe
quante foglie una selva o i granelli
di sabbia che il mare depone
sul lido…
 
 

Orfeo ed Euridice  (X, vv. 8-59)
 

Mentre vagava sui prati la sposa
novella in compagnia delle Naiadi
la  punse al tallone una serpe
e morì. Dopo aver pianto e invocato
quanto poteva i celesti, il poeta
del Ròdope  -  nulla voleva
lasciare intentato – si volse
allora alle ombre. E fino allo Stige
osò scendere giù per la porta
di Ténaro: e tra quelle schiere
senza più peso e i fantasmi
di gente sepolta al cospetto
fu di Perséfone e in faccia al Signore
che tiene quel pallido regno.
E così tentando le corde
della sua lira  diceva:” O potenti
di questo mondo che giace sotterra
ove noi tutti torniamo, mortali
quanti siam nati, mi si conceda
di dire il vero senza ambagi, senza
parole ipocrite: io non sono
sceso quaggiù per visitare il buio
regno del Tartaro o per stringere
alle tre gole irsute di serpente il drago
ch’è figlio di Medusa. A questo viaggio
la mia sposa mi induce che una vipera
offesa dal suo piede col veleno
fece morire e la strappò dal fiore
degli anni. Avrei voluto sopportare
fosse stato possibile. Ho tentato,
lo giuro. Ma l’amore ha vinto: un dio
ben noto sulla terra. Qui tra voi
non so, ma spero che lo sia: se è fama
non mentita qua giù di un rapimento
antico, pure voi strinse l’amore.
Per questi luoghi di sgomento e i vasti
silenzi dell’abisso, ecco io vi prego:
ritessete la vita di Euridice, il filo
troppo presto spezzato. A voi noi tutti
torniamo o prima o poi dopo una breve
stagione al mondo, qui, a quest’unica
meta precipitiamo. Questa è l’ultima
nostra dimora: e voi sul genere
umano avete signoria infinita.
Anche costei, quando sarà compiuto
il giusto giro dei suoi anni, vostra
sarà di diritto, ormai matura
per voi. Non dono, un prestito vi chiedo.
Ma se un fato mi nega questa grazia
per la mia sposa, è certo ch’io non torno
lassù: gioite dunque di due morti”.  
Mentre così diceva accompagnando
col suono le parole lo seguivano
in pianto quelle anime esangui.
Per una volta Tantalo si astenne
dall’acqua fuggitiva, s’incantò
stupita la ruota di Issione, gli avvoltoi 
non straziavano il fegato di Tizio,
non accorsero alle anfore le figlie
di Belo e tu, Sisifo, immobile
ti sedesti sul masso, ecco, e si videro
per una volta scendere alle Erinni
sulle gote le lacrime a quel canto
commosse. E non resiste
alla preghiera la regina, non si oppone
il re, signore dell’abisso, no: si convochi
dunque Euridice. Stava tra le ombre
discese appena: e venne a passi lenti
per la ferita. Orfeo la accolse e seppe
anche la legge: non si volga indietro
e non la guardi fin che non sia uscito
dalle valli d’Averno, oppure vana
sarà la grazia. Prendono un sentiero
arduo, in salita dentro a quell’opaco
silenzio, ripido, affondato
nella folta caligine. Lontano
ormai non era il margine del mondo
dei vivi: Orfeo che teme
che sia smarrita e brama di vederla
si volge e guarda innamorato. Sùbito
lei fu ghermita: scivolava indietro
tese le braccia a prendere, a esser prese.
Ma nulla strinse se non l’aria
vuota.

 
Apollo e Dafne  ( I, vv. 497-556)
 

Guarda i capelli scenderle scomposti
giù dalla nuca. “E che, se fossero –
si dice – pettinati?”. Ecco brillare
come stelle gli occhi e poi le labbra
le vede e di guardarle
non è mai sazio e loda quelle dita
e le mani e le braccia seminude:
sarà ancor meglio quel che non si vede?
Fugge più svelta lei del venticello
lieve né porge alle parole orecchio
di chi la chiama: ”O ninfa, o figlia di Peneo,
férmati, ninfa, te ne prego: io non ti inseguo
come un nemico. Già: l’agnella fugge
davanti al lupo, e fugge la cerbiatta
per il leone, e le colombe all’aquila
con penne trepidanti fuggono, ognuno
ha i suoi nemici. Ma io per amore
ti inseguo. Ahimè, non voglio che tu inciampi
che ti pungi tra i rovi le caviglie
senza peccato, no, non farti male
per causa mia. Sono selvaggi i luoghi
là dove corri, vai più adagio, frena
la fuga. E anch’io più adagio
ti seguirò. Ma almeno, via, considera
a chi piaci. Non sono un montanaro
e nemmeno un pastore, io, né un bifolco 
guardiano qui di pecore e di buoi.
Non sai chi fuggi, temeraria,
ed è perciò che fuggi. Io son signore
di Delfi e Claro e Ténedo e di Pàtara
regale. Ed è mio padre Giove.
Quel che sarà, che fu, che è, tutto si svela
per me e per me si accordano
i suoni della lira, ecco, e infallibile
è la mia freccia, sì: ma un’altra è stata
più infallibile ancora e m’ha colpito
al cuore all’improvviso. Io guaritore
d’ogni male del mondo, io che ho inventato –
mi si loda di ciò  – la medicina,
e delle erbe possenti ho signoria,
ahi, che non trovo l’erba che risani
d’amore: e l’arte mia famosa
e che a tutti ha giovato a me non giova”. 
                        Altro ancora aggiungeva: la figlia
di Peneo, via sempre di corsa, lo lascia
con la parola a metà. Oh, certo era bella
anche allora a vedersi: le membra
che il vento scopriva, le vesti
dal soffio agitate, i capelli
dietro la nuca fluttuanti. La fuga 
stessa era grazia. Non regge
il  giovane dio, non sopporta
di sprecare blandizie. Sospinto
da amore accelera il passo. Sì, è un bracco
che ha scorto nella radura la lepre:
lui pensa alla preda e l’altra alla vita,
l’uno è già quasi sopra, già spera
ghermirla, la bocca che anela
e passo su passo la incalza, e l’altra
non sa se è già presa, al morso si strappa
tra le zanne gli sfugge. E’ la stessa
tra il dio e la fanciulla la gara.
A lui la speranza dà ali, a lei la paura.
Ma chi insegue con penne d’amore
è più lesto e tregua non lascia
a chi fugge, la insidia da presso,
le sfiora col fiato la chioma
sul collo. Stremata dalla fatica
e pallida in viso la ninfa
si volse alla vena del fiume
Peneo e “Aiutami, padre –
invocava – se avete, voi fiumi,
un divino potere, dissolvi
trasforma questa mia forma
per cui troppo piacqui”. Nemmeno
finita questa preghiera, un torpore
profondo negli arti la prese:
il tenero petto si fascia
di una corteccia sottile, i capelli
s’allungano in fronde, e in rami
le braccia, e il piede già così agile
s’abbarbica fermo
in una radice, il volto si affusola
in una cima. Rimane di lei
a splendere solo una luce.
                                          Ma l’ama
Febo anche così. E,  posata la mano
sul tronco, vi sente battere il cuore
sotto la scorza recente, le stringe 
tra le sue braccia quei rami,
le bacia quel legno. Ma il legno
i suoi baci respinge.

Roberto Pagan: Biobibliografia

 Nato nel 1934 a Trieste, Roberto Pagan ha potuto conoscere e frequentare gli ultimi rappresentanti di quella grande stagione mitteleuropea: Saba, Giotti, Stuparich, Marin. Nella poesia ha esordito molto giovane (nel 1957 era vincitore del I Premio Triveneto di poesia dialettale) per dedicarsi poi agli studi classici e all’insegnamento nei licei. E’ stato tra i redattori della rivista di narrativa Nuova Prosa. Ha pubblicato quattro libri di versi:  Sillabe, Il Ventaglio, Roma, 1983, Genealogie con ritratti, Bastogi, Foggia, 1985, Il velen dell’argomento, Edizioni del Giano, Roma, 1992 e Per linee interne, Interlibro, Roma, 1999, con il quale è risultato finalista al Premio Frascati 1999 e al Premio Jovine 2000. Suoi testi di critica e di poesia sono presenti in varie riviste e antologie. Dal 1969 vive tra Roma e la Maremma toscana.


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