VICO ACITILLO 124 - POETRY WAVE
Electronic Center of Arts

Direttore: Emilio Piccolo


Sans passion il n'y a pas d'art


Calamus
Almanacco di poesia


Giuseppe Vetromile

   
Un antico oggetto in ascolto
Il filobus
Nella rete del mercatino rionale
Preghiera del due ottobre
Pignasecca
Fuori orario
Paternità
 
 

Un antico oggetto in ascolto

Rosamaria è questa voce assurda
che promana dal mattino dorato
fino ad ogni mortale abbandono…

Io non sono che un antico oggetto in ascolto,
frastornato,
diramato nei labirinti della città arcigna.
Qui affondo radici incerte
nello strazio congelato dei battiti d’ala disperati,
meditando impossibili fughe verso il cielo
(chissà, la luce del tuo volto, ora,
oltre i caseggiati!…)

E qui m’incarno,
nei ricordi ricostruiti alla vigilia dei sogni
su questo antico letto vespertino.

Suonami una musica circoscritta,
o dolce voce di memorie collaterali,
un canto, anima mia, 
che sia motore d’un giorno vuoto e fiacco,
naufragato in questa agitazione rumorosa
alla deriva su pezzi di vita scompagnati

(che disordine è questo, che blatera nel mio cuore?…)

Alla fine, Padre!,
spogliami dei miraggi superflui
ancor prima che – sazio dell’ultima carne – 
il buio possa sorprendermi attonito
con la bocca piena di polvere di morte
e il cuore senza più l’eco lontana
d’un briciolo d’amore…

Il filobus

Terribile improvviso lo scoscio del trolley 
– ballonzola uno di qua,
uno di là oscilla per fatti suoi – 
è rotto l’incantesimo, geme il filobus
meravigliandosi fermandosi di botto.

         Ha sbagliato l’inesperto vecchio autista
allo scambio del quadrivio
         o la sdrucita puleggia con dispetto
non ha più seguito il suo filo conduttore ?

         Scende a terra il capitano, abile
marionetta con i fili indirizzando le aste
         sul giusto itinerario.

Riprende poi femmineo un ronzio e vibra
         arrampicandosi sui giri elettrici
il motore invisibile – un “iiih” verso l’ultrasuono – 
         Rassegnata obbediente si rimuove
la verde vettura 
         lungo la catena del corso cittadino.
 
Nella rete del mercatino rionale

Nella rete del mercatino rionale non ho trovato
smagliature per fughe oltre questo mio stare
dentro, disperato d’altre possibilità. Non c’è
un’alternativa al girovagare intorno,
non v’è che una circoscrizione nota. Mia cara,
la nostra è solo vita d’atomi contingenti,
fedeli al tempo e alla terra, tese di braccia
all’avventura inedita. Ma non ci sono indie
né eldoradi.

                      Come vuoi che abbia quindi un senso
trascendentale la nostra casa di adesso–qui,
la nostra scaturigine dal grembo della terra
in questo blablà confuso tra mille odori
e vedute brevi? Non potremo mai staccarci
da queste bancarelle, da questo mercato
che è la nostra quotidiana Mecca.

                      Non congiungerti, mia cara, al grido roco
dell’ortolano, non cadere nel pozzo enorme
delle illusioni: i colori i profumi l’aroma il cielo
il vento il sole la gaiezza
di questo mercato, è tutto racchiuso nel cuore,

                      ma la verità è Dio in persona
nascosto oltre ogni possibile sfera o atomo di vita.
Perciò non sarà la nostra mano ad aprire l’universo,
questo nostro girotondo nel mercato e nelle piazze
non finirà che mai

                     (se mai è la parola che vale il paradiso,
asintoto d’ogni felicità di noi
qui, abitanti del quartiere spezzettato…)

Preghiera del due ottobre

Defusco Giovanni
operaio della terza linea
nato a Cardito il venti aprile quarantotto
matricola treduecinquetreunoquattro

Questa deriva.
Questo cancello che separa.
Questa certezza dell’usuale senza alcuna meraviglia.
Questo fardello, questo rudimentale eldorado.
Questa fatica.
Questo così sia.

O Signore,
non darmi il nulla quotidiano: la mia vita
è questa pezza di tuta grassa
da indossare sopra i sogni, le speranze.
E non conto i giorni: trascorrono insensibili e unti
dopo ogni blanda cena casalinga.

O Signore,
non darmi mediocrità: la mia vita
è anche un piccolo morso di pane
racchiuso in carta stagnola,
è il break delle dieci e trenta,
un caffè e una sigaretta,
la chiacchiera sul goal mancato,
questo andare e ritornare mille volte
sul medesimo bullone.

O Signore,
non darmi buio: oggi sbattono ali di operaio
nel paradiso dei pendolari. La mia vita
è ora questo viaggio verso l’altrove
dipanate le nebbie dei deserti,
delle fredde fabbriche del pane.

O Signore,
non darmi colpa: la mia vita
è anche questa morte improvvisa immeritata
capitata al centro del banale grigiore
e infinito disperato ricercarTi?

Senza ancora saperTi come e dove?

Liberami dalle catene almeno.
Dai dissidi. Dalle rabbie.
Che’ io possa ora risvegliarmi
alla via. Alla verità. Alla vita.

O Signore.

Il giorno dopo
un morire d’operaio è martirio inutile:
produce solo pena.
E noi cancellando dolori fraterni
dai nastri magnetici,
avanti a produrre meccanismi infiniti
di eterna insoddisfazione.

Pignasecca

Pignasecca sghimbescia affoga ogni metrocubo d’aria
ai passanti scartocciati dal fagotto di Natale: a iosa
le facce variopinte cosmopolite a lungo andare
si mischiano si rimettono in fila. Stentano macchine
reclamando un varco di diritto clacsonando intermittenti
insistenti come la voce querula di Fortunato ‘o tarallaro
che passa e spassa davanti ai Pellegrini (di tanto in tanto
uno strazio di sirena che scotenna di brividi la pelle
e recita automatici rosari di rinforzo
in superficie di labbra alle vecchiette della spesa…)

Più in là tenebrosa la ruvida funicolare risale
nel suo antro oscuro, un biancore a malapena
s’intravede lassù alla fine del lungo budello,
sarà una vita che salescende, una vita che
arriva e riparte, nasce e muore. Infatti
se una sta giù l’altra sta su per forza,
e come ogni cosa ha il suo contrario
anche noi che stiamo qui a Montesanto
abbiamo nostri fantasmi su al Vomero, gente
appena leggera vaporosa, appena dolce e lieve
come angeli d’aria nel paradiso dei terrestri.

Fuori orario

La quattrocentocinque al quarto piano
di Semeiotica Chirurgica,
una due letti incapsulata
in una lunga silenziosa navata:

il tuo temporaneo patire.

Mistico andirivieni
degli addetti ai lavori: taumaturgici
candidi camici, le macchie rosso sangue
qua e là – a indicare
l’alta professionale uguale per tutti
dedizione / indifferenza…

e il tuo cuore inchiodato a capoletto!

dove hai pure un numero, il duecentodieci
– ben avvitato alla parete – 
e immatricola la speranza
per un domani di felicità,
sanata la carne che fu d’impedimento
alle quattro capriole sui prati verdi.

Gli amici son tanti: fuori orario
ahimé!
Il custode ad uno ad uno
per carità cristiana autorizza
prendendo buona nota
del patema di ciascuno.

Paternità

Dicevi dunque che non c’era più da fare nulla,
questo malanno è ormai compagno assiduo di sventure
verso orizzonti bugiardi e impietosi. Pure,
non so, padre, quale forza ammiccava
nel tuo occhio settantenne, consumato
da visioni di perpetui arrangiamenti,
che cosa dava l’ultimo vigore
ai tuoi passi verso una speranza disperata,
tesa alla preghiera silenziosa
del tuo ultimo perché.

Dicevi pure che la pelle si è sgualcita troppo presto,
accucciato nel letto della sera
frequentemente chiuso da una fredda
spalliera d’ospedale. E l’affanno del petto
che cercava la vita in un metrocubo d’aria ossigenata
era poca cosa al confronto dell’orrore
d’un prossimo possibile distacco dal pianeta.

E non potevi trovare barlumi di risposte
se non nel nucleo del tuo cuore religioso.

Ora io mi nutro della tua aria misteriosa
vagante per mille e mille notti musicali
in una laguna di canti melodiosi
dove il tuo clarino era scettro di re
e strumento di vita avventurosa.

O Signore, se Tu veramente sei l’alfa di ogni cosa,
anche di queste squattrinate molecole di padre,
Ti prego di riunirmi a loro, reintegrate
dal Tuo enigma di luce, quando sarà l’ora
del gran rimescolìo di terra e cielo
nell’omega del mondo.


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